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La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente |
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30 gennaio 2022 Partiti partiti Il titolo non è una elementare
ripetizione. È, in realtà, una frase semplice, lineare, essenziale, composta
da un soggetto e da un verbo. Basta considerare che il primo termine è un
nome comune e il secondo un evidente participio passato: benedetta analisi
grammaticale! Il senso, tuttavia, lo si può
dedurre lapalissianamente dai molteplici significati del verbo “partire”, che
può voler dire andare via, allontanarsi da un luogo, abbandonare un posto.
Esso, però, assume altri significati traslati se riferito a soggetti e
situazioni particolari così come risulta dall’uso del linguaggio comune.
Quando si dice che uno è “partito” può voler dire che è uscito di
mente, che ha smarrito o abbandonato il senso comune, la logica,
l’equilibrio, la razionalità e persino l’identità e il senso di se stesso. In politica, poiché è questa la
chiave discorsiva, ciascuno sa che cosa sia un partito, da cosa nasce e a che
cosa mira o dovrebbe mirare. È sulla scorta di questa
considerazione che ci sembra di poter dire che lo “stivale” si stia
sfondando, perdendo in un solo attimo tutto quanto aveva finora custodito in
secoli di storia. Il dramma, pertanto, risiede nell’interrogativo: «Come
faremo a riempirlo di nuovo di contenuti?» Andrebbe risuolato, rifondato,
rilucidato per renderlo decente nell’immagine. Ma, principalmente, andrebbe
calzato da soggetti in grado di muovere passi accorti, autorevoli, decisi e
fermi sulla strada da percorrere verso una futuribilità meno improvvisata e
confusa. Non si consideri peregrina la
metafora. Si rivolga lo sguardo, piuttosto, verso i passi barcollanti che
lasciano tracce “zigzaganti” sulla platea politica contemporanea nella nebbia
di una confusione che non ha precedenti. Nell’incrocio perverso di mascherine
variamente colorate, che coprono il volto non soltanto per prevenzione anticovid, si nutrono i rancori malcelati di una classe
politica germogliata tra i rottami dei partiti politici tradizionali i cui
simboli, in fondo, rappresentavano nuclei di aggregazione ideali, unificanti,
stimolanti sul piano dell’appartenenza e della partecipazione. Ma anche
dell’identificazione. (1) La destra era destra e la
sinistra era sinistra e su di esse si fondava l’orgoglio dello schierarsi di
qua o di là. Ora, l’annacquamento (o inquinamento) prodotto dallo spargersi
disordinato delle cellule ibride di un centro (peraltro molto nominale)
troppo facilmente disgregato, sbiadisce i colori decisi di un tempo, ricusa
simboli ed appartenenze e si manifesta in timide denominazioni difficilmente
riconoscibili nel panorama delle formazioni “politiche”. È l’apoteosi dei nomi propri.
Tutto va ricondotto ad un nome ed un cognome. E ciò la dice lunga. Ogni
scelta sembra essere funzionale al guru di riferimento. Basta considerare il
teatrino esibito per la scelta del capo dello Stato, come se si stesse
cercando un nome proprio piuttosto che la sintesi di valori assoluti e
riconosciuti. Ci ha dato l’impressione che questi requisiti siano introvabili
negli agglomerati umani che compongono i partiti politici dell’oggi in
confusione perenne. Da qui, l’invito al cittadino di
sollevare per un attimo lo sguardo perennemente incollato sul telefono
cellulare dallo schermo in via di logoramento per il continuo e frenetico
smanettare poco utile e molto perditempo. È il caso che si guardi intorno e
che osservi la realtà vera, quella non filtrata dall’occhio di una
miniaturizzata camera di ripresa anch’essa finalizzata ad operazioni di
dubbia finalità e di scarsa chiarezza nonostante l’alta definizione delle
immagini. La riconferma di Mattarella, come
prima quella di Napolitano, è indizio inconfutabile di un decadimento
generazionale della classe politica. Ci si improvvisa parlamentari dalla sera
alla mattina senza contare che per acquisire certe capacità occorre un tempo
lungo, molto lungo. E nel frattempo? Ecco, quindi, che ci si affida
agli esterni, ai cosiddetti tecnici, ai quali si chiede un ruolo di supplenza
per quanto autorevole e indiscussa. E sì che lo “stivale” si sfonda per il
peso inerte di una folla dall’ugola atrofizzata per silenzi abituali e
povertà di idee. Persino in loco, nella nostra piccola
cittadina, il fenomeno dilaga. Perché la cosa nasce dal basso dove gli
elettori, piccoli o “grandi” che siano, soffrono della patologia della
distrazione, patiscono il male della “leggerezza
dell’essere”, si abbandonano all’idea dell’inevitabile. È come un brutto sogno. Però da
quello ci si sveglia. Luigi Parrillo |
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