La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente

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19 maggio 2017

Quando Berta filava

Tutto scorre, tutto cambia. Panta reei diceva Eraclito. E tra le cose che scorrono inesorabilmente e che ne modificano lo stato, il tempo la fa da padrone. Se ne rende maggiormente conto, talvolta con soddisfazione, talaltra con sgomento, chi ha raggiunto la mia età e di tanto in tanto si sorprende a “riavvolgere il nastro” osservando in sequenza le lente modificazioni che il Tempo sornione ha apportato alle condizioni di vita del genere umano e non solo.

Così osserviamo, spesse volte con rassegnata impotenza, i capovolgimenti delle abitudini, gli stravolgimenti delle professioni, il degrado della politica, le metamorfosi frequenti del senso comune divenuto così “liquido” (per parafrasare Zygmunt Bauman) da adattarsi senza eccessive difficoltà ai frequenti mutamenti di forma e di sostanza della complessa fisionomia della società contemporanea.

Da vecchio insegnante, mi lascio andare spesso alla considerazione critica di un assioma tanto ovvio quanto colpevolmente ignorato dalla classe politica attuale, in base al quale tra i compiti della scuola ci sarebbe quello di formare la società, non certo “costruendola” artatamente, ma agevolandone lo sviluppo nel rispetto delle norme fondamentali della nostra civiltà. Ovvero, nella puntuale osservanza dei diritti e dei doveri senza i quali prende corpo la sregolatezza dell’anarchia e lo spregio per l’autorità costituita.

Da qui a dire che, al di là delle intenzioni, di certa “buona scuola” [v. legge 13 luglio 2015 – n.107] si muore, il passo è breve. Analogamente, e non vorrei essere smentito per un difetto di memoria, ricordo che fu proprio Salvador Alliende a dire, forse non proprio testualmente, che di democrazia si muore. In ogni caso, se così non fosse, basta fare un salto indietro di qualche migliaio di anni e riprendere il vecchio buon Platone:

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«- Atene, 370 a.C. - Quando la città retta a democrazia si ubriaca di libertà confondendola con la licenza, con l’aiuto di cattivi coppieri costretti a comprarsi l’immunità con dosi sempre massicce d’indulgenza verso ogni sorta di illegalità e di soperchieria; quando i capi tollerano tutto questo per guadagnare voti e consensi in nome di una libertà che divora e corrompe ogni regola ed ordine; c’è da meravigliarsi che l’arbitrio si estenda a tutto e che dappertutto nasca l’anarchia e penetri nelle dimore private e perfino nelle stalle?

In un ambiente siffatto, in cui il maestro teme ed adula gli scolari e gli scolari non tengono in alcun conto i maestri;

-        in cui tutto si mescola e si confonde;

-        in cui chi comanda finge, per comandare sempre di più, di mettersi al servizio di chi è comandato e ne lusinga, per sfruttarli, tutti i vizi;

-        in cui i rapporti tra gli uni e gli altri sono regolati soltanto dalle reciproche convenienze nelle reciproche tolleranze;

-        in cui la demagogia dell’uguaglianza rende impraticabile qualsiasi selezione, ed anzi costringe tutti a misurare il passo delle gambe su chi le ha più corte;

-        in cui l’unico rimedio contro il favoritismo consiste nella molteplicità e moltiplicazione dei favori;

-        in cui tutto è concesso a tutti in modo che tutti ne diventino complici;

-        in un ambiente siffatto, quando raggiunge il culmine dell’anarchia e nessuno è più sicuro di nulla e nessuno è più padrone di qualcosa perché tutti lo sono, anche del suo letto e della sua madia a parità di diritti con lui e i rifiuti si ammonticchiano per le strade perché nessuno può comandare a nessuno di sgombrarli;

-        in un ambiente siffatto, dico, pensi tu che il cittadino accorrerebbe a difendere la libertà, quella libertà, dal pericolo dell’autoritarismo?

Ecco, secondo me, come nascono le dittature.

Esse hanno due madri.

Una è l’oligarchia quando degenera, per le sue lotte interne, in satrapia. L’altra è la democrazia quando, per sete di libertà e per l’inettitudine dei suoi capi, precipita nella corruzione e nella paralisi.

Allora la gente si separa da coloro cui fa la colpa di averla condotta a tale disastro e si prepara a rinnegarla prima coi sarcasmi, poi con la violenza che della dittatura è pronuba e levatrice.

Così la democrazia muore: per abuso di se stessa. E prima che nel sangue, nel ridicolo. »

 

 

Stamattina, scorrendo in rete le pagine che di solito consulto per essere edotto su quanto accade nel mondo attraverso un’informazione più dettagliata rispetto al ripetitivo bla-bla dei commenti televisivi, mi sono imbattuto in un titolo quanto meno curioso: «Minacciare la bocciatura è reato, nuova tegola sugli insegnanti. Ultimo paradosso di una scuola in crisi di autorevolezza.» Ve ne propongo il link:

http://notizie.tiscali.it/cronaca/articoli/minacciare-bocciatura-reato/.

L'articolo 571 del codice penale – si legge nell’articolo - considera reati tutti i comportamenti che vengono valutati come abuso di autorità da parte di chi si è visto affidata una persona per ragioni di vigilanza e custodia ma anche per ragioni educative.

È proprio il termine “abuso di autorità” che mi ha prodotto un moto di ribellione. E, quindi, la considerazione ironica di come gli abusi (ove eventualmente ci fossero) vengono rilevati e denunciati dai banchi e non dalle cattedre. Perché sono queste, oggi, che subiscono abusi di ogni genere provenienti da più direzioni e da più livelli. Sono le cattedre, strattonate e mortificate da nuove generazioni di legislatori e di “sceriffi” senza la colt 45, a sottostare alle nevrotiche elucubrazioni normative fatte di illogiche impercettibili differenze, di sfumature pretestuose, di trappole disseminate qua e là, a confronto delle quali i bizantini sarebbero, a dir meno, impalliditi.

Emuli di Dedalo, ma senza averne la scienza e la capacità progettuale, legiferano per labirinti concettuali e territoriali, neutralizzando con cattiveria l’efficacia di qualsiasi filo di Arianna per venirne fuori. Il territorio nazionale prima, e poi le regioni, le provincie ed i singoli istituti scolastici, vengono scambiati per la piazza di Marostica in un gioco degli scacchi eseguito ignorando le regole fondamentali che stanno alla base del rispetto della persona, che spesso viene deprivata della propria dignità come un qualsiasi risparmiatore cui si nega il proprio denaro a seguito del fallimento di una banca.

Come si può pensare di restituire autorevolezza ad una istituzione come la scuola che per prima, anche se in senso figurato, fa macelleria umana pietosamente coperta col beneficio dell’assunzione? È quando la nave fa acqua da tutte le parti che si cerca di tappare le falle con il primo arnese che ci si trova davanti: stracci, elementi di risulta, oggetti di qualsiasi forma e colore considerati multivalenti e quindi utili in ogni stagione.

Ma le falle nelle casse del governo non le tappa nessuno. L’alimento principe per la sopravvivenza di qualsiasi istituzione si perde a vista d’occhio in mille rivoli che portano lontano da queste. E la scuola è una istituzione che soffre la fame.  E, come tutti i mendicanti, tende la mano inutilmente. È per questo che perde autorevolezza, sbiadisce in immagine, subisce lo scherno ingiusto di chi dovrebbe alimentarla.

Pretestuosamente, viene invitata a dimagrire (leggi maturità di quattro anni, non più di cinque) forse per non soverchiare di eccessivo carico i solai che crollano.

Il sapere si contrae, le competenze disciplinari si configurano diversamente fino a tradursi in abilità pratiche, le note culturali si assottigliano temendo che diventino palle al piede per carriere politiche di rilievo, le professionalità si svuotano per contingenze spesso imprevedibili, le retribuzioni fanno invidia alle più crudeli vignette umoristiche. E c’è tanto, tanto di più. Il Potere lo vuole!

Com’è, dunque, che l’abuso di potere si configura nella minaccia di una bocciatura e non nella proditorietà di chi la scuola l’ha già bocciata?

Luigi Parrillo