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La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente |
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11 febbraio 2016 Politici
e appeal Quanto
tempo è trascorso dalla nascita della Repubblica nel nostro Paese! Ero ancora
bambino. Un bambino così piccolo che non aveva ancora la piena consapevolezza
di quanto stava accadendo e della evoluzione politica, e per ciò stesso
socio-economica, che stava attraversando la società italiana. Solo più tardi, molto più tardi, presero corpo e assunsero
importanza ai miei occhi le immagini autorevoli dei padri – e le madri (poiché
vi erano incluse anche 21 donne) - costituenti nonché le figure degli uomini politici
che, ciascuno per il proprio ruolo e dalla propria angolazione prospettica,
tentavano con caparbia volontà di disegnare il nuovo volto dell’Italia, che
aveva appena pagato un amaro tributo di sangue e di libertà ad un periodo
storico travagliato, di cui ancora si discute senza quella necessaria
serenità che possa fornire allo storico la lente otticamente nitida per
mettere asetticamente a fuoco fatti e personaggi ai fini una analisi corretta
e condivisa. Fu l’immagine di quegli uomini, di governo o di lotta, che mi
diede, intuitivamente e implicitamente, la spiegazione (oltre che il senso)
del termine “politica”. E non poteva che essere così, essendo io ancora
completamente digiuno di quelle nozioni di greco che, etimologicamente e non
solo, riconducono
alla polis e alla politeia, da
cui deriva lo stilema e la sua significazione profonda. Così, per anni, rimasi attratto, affascinato, dalla caratura
culturalmente corposa che si immaginava fosse patrimonio di quegli uomini, i
quali esprimevano nell’aspetto, nelle movenze, nelle parole prima pensate e
poi espresse, nella fattualità legislativa (ancorché non perfetta, né
universalmente condivisa), nella foga della lotta, nelle modalità civili
dell’approccio con i cittadini, un’autorevolezza che induceva al rispetto
anche quando non se ne condividevano il senso ed il credo politico. Era
quello che oggi si definisce, con un barbarismo appropriato, “appeal”. Poi tutto prese a sbiadire. Non è il caso di dire quando e
come; né si può fissarne la data d’inizio. Fatto sta che la storia prese a
smantellare quei fari, cromaticamente differenti, che erano punti di
riferimento per una metaforica navigazione verso mete condivise. Le luci
intense proiettate dall’alto sono state via via proditoriamente sostituite da
torcette a mano, elettronicamente dotate di rapide variazioni di toni e di
colore, per distrarre ulteriormente le comunità - sempre meno attrezzate
politicamente - come le perline colorate o gli specchietti che venivano
distribuiti dai primi colonizzatori agli indigeni delle nuove terre
conquistate. Non c’è chi non veda (e che non soffra, volente o nolente) il
decadimento, sul piano dell’immagine e non solo, dell’intero panorama
politico centrale e periferico. Le aule parlamentari di ogni ordine e grado
di importanza sono formicai brulicanti di soggetti dalla difficile
identificazione e dalla provvisorietà determinata non già dall’elettorato, ma
dai numerosi provvedimenti giudiziari. Un parterre naif appena punteggiato
qua e là di soggetti che sembrano fuori dal tempo. I rumori di fondo riescono
appena a nascondere pietosamente gli ostentati e reiterati stupri della
lingua italiana attraverso i quali, con grottesca seriosità, precipitano
nell’uditorio, spesso amplificato dai media, discutibili ed improbabili ricette
per la salvezza del popolo sofferente. Impossibile
attribuirne origini o paternità ideologiche. Il fenomeno delle migrazioni di
massa ha contagiato anche parlamenti e parlamentini e non c’è chiusura delle
frontiere che tenga. Nel mare magnum del parlamentarismo selvaggio i barconi
non servono: si va a nuoto, dal momento che le distanze vanno sempre più
accorciandosi. Altro che rari nantes in gurgite vasto! Evoluzione? Chi lo sa! È, in ogni caso, l’apoteosi dei capipopolo. I partiti o i
movimenti che dir si voglia, che abbiano o meno un simbolo, vanno ricondotti
a singole fisionomie, a slogan, ad abbigliamenti particolari (il costume di
scena), a jingles
pubblicitari e chi più ne ha, più ne metta. I princìpi, le filosofie,
l’approccio sociologico, gli studi sulle dinamiche psicosociali, vanno messi
da parte o, tutt’al più, utilizzati furbescamente per la crescita individuale
del soggetto al vertice della piramide. «Uno! Tutto il resto è relativo» -
recitava anni fa la pubblicità di una popolare vettura della FIAT. Così, tra questo che a mio parere è lo stato delle cose,
rotolano uno dopo l’altro i giorni che avvolgono nel loro rotolare opinioni
pubbliche che appaiono sopite, stordite, forse ipnotizzate. La storia, però, ci insegna che fenomeni di questo tipo, che
si trascinino per troppo tempo, possono dar luogo ad autoritarismi improvvisi
forieri, quasi sempre, di limitazione o totale negazione dei diritti
dell’uomo e del cittadino. Per verificarne la veridicità, si rinvia ad una lettura, anche
superficiale, della storia delle civiltà. Luigi Parrillo |
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