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La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente |
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28 novembre 2016 Le nozze con i fichi secchi Incredibile! Un musical
dai contenuti artistici e culturali di altissimo livello viene rappresentato
in un ambiente assolutamente discutibile, che per ben 70 euro di
biglietto d’ingresso (e dopo circa tre ore di viaggio in automobile) ti fa
trovare, nelle primissime file, sedie di plastica. E per di più, ai servizi,
bagni alla turca. Le classiche nozze
con i fichi secchi. Parliamo del celeberrimo “Notre
Dame de Paris”, che dal Gran Teatro di Roma e dall’Arena di Verona, si trova
catapultato nel Sud del Sud di una Calabria che non ha mai realizzato una
struttura idonea ad accogliere degnamente un evento di tal genere. Probabilmente,
senza il “Palazzetto” di Pentimele, dove è stato rappresentato negli ultimi
tre giorni fino a domenica scorsa, lo spettacolo non sarebbe mai arrivato in
Calabria e tanti estimatori del genere musical non avrebbero goduto
dell’evento che, nel suo genere, è assolutamente straordinario. Ciò non
toglie che la commistione evento-luogo stride notevolmente e disturba non poco
il gusto estetico che di norma deve accompagnarsi a manifestazioni
artistico-culturali di questo tipo. È anche un fatto di amor proprio. Per le musiche di Riccardo
Cocciante, filtrano i testi originariamente in lingua francese di Luc Plamondon e mirabilmente
tradotti in lingua italiana con buona fedeltà da Pasquale Panella, che
traggono spunto dal “Notre Dame de Paris” di Victor Hugo. La storia di questo musical è
straordinaria. Basta andare sulla rete web per desumerne i tratti e le cifre
impressionanti. Si pensi che in tutto il mondo l'opera ha superato i 15
milioni di spettatori con oltre 4500 repliche. E critiche autorevoli fanno menzione alla vicenda
romanzata da Victor Hugo, anche in circostanze non decisamente di tipo
teatrale. Luciano Canfora, per esempio, nome di elevatissimo prestigio nel
campo letterario, ne cita alcuni tratti nella prefazione ad un’opera libraria
recentissima. Leggiamola, giusto per osservare con occhio diverso quello che
per l’osservatore distratto sembra essere solamente uno spettacolo musicale,
in cui i brani “sono solo canzonette”:
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«Ceci tuera cela Tra le
digressioni autobiografiche del delizioso e inutile ultimo libretto di Augias non
manca quella che tira in ballo il capitolo quinto di
Notre-Dame de
Paris. “Ceci tuera
cela”: la pagina di carta ucciderà l’edificio di pietra.
L’arcidiacono soppesa da un lato il silenzio della grande cattedrale,
dall’altro la voce del libro aperto sul suo tavolo. E profetizza la morte
inflitta da questa piccola cosa all’immensa chiesa di cui ha appena fornito –
indicandola ad un confratello dalla finestra – un’immagine poderosa. Il
piombo di Gutenberg contro la pietra di Orfeo. Da un lato l’originalità e
l’innovazione di un “perpetuo movimento”, dall’altro “l’immobilità
pietrificata di una certezza dogmatica”. In definitiva, un libro ucciderà un
altro libro. Quella Notre-Dame che rimanda essenzialmente al sistema culturale e sociale che essa stessa
rappresenta: nel quale la storia della civiltà umana inizia con la prima
pietra piantata nel terreno quasi lettera di un primordiale alfabeto, legge
nel pilastro del tempio greco la sillaba e nella piramide la parola, per
giungere alla cattedrale medievale come racconto. L’ottimismo di Hugo ritenne il libro capace di
farsi “rifugio promesso all’intelligenza” (giammai padre di tutti i “fortissimi” perditempo) e capace di
esorcizzare ogni eventuale nuovo diluvio.
Considerazioni che si ripropongono ogni volta che i libri si trovino a fare i
conti con tutti quegli strumenti e meraviglie che ottundono, mobilitando
solo una parte del cervello e assopendone il resto. Il mezzo televisivo,
intendo, che soppianta la parola scritta, l’unica che può davvero definirsi
parola, con l’immagine, selezionata, se del caso falsificata e ossessivamente
reiterata sino a creare una realtà che non esiste. Se l’arcidiacono di
Notre-Dame paventava, rassegnato, la vittoria del libro sulla cattedrale
“parlante”, oggi questa nuova e rutilante e dozzinale “cattedrale parlante”
rischia di scalzare il libro. Il libro è di per sé strumento critico, perché
i libri sono per natura, si potrebbe dire, molti e in contrasto tra loro, e
dunque critici. Il “piccolo schermo” ipnotizzante è invece inevitabilmente
uno, portatore, in una gara al ribasso, di un unico “pensiero”. E dove il
pensiero è solo uno c’è barbarie, dove i pensieri sono molti e conflittuali
c’è libertà. Ecco perché ancora una volta è nel libro la nostra principale
speranza. (Luciano Canfora, prefazione a
Michel Melot, Libro)» |
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Spente le luci, tuttavia, parte lo
spettacolo con la sua grandiosità scenica e contenutistica. Allora, la poesia
di Gringoire, le danze acrobatiche della Corte dei Miracoli, la deformità
fisica di Quasimodo e le esasperate debolezze mentali di Frollo
(l’arcivescovo innamorato), la bellezza della zingara Esmeralda, il tutto
avvolto nella musica di Riccardo Cocciante, fanno dimenticare la locatiom plebea
del Palacalafiore e della sterpaglia che lo circonda,
per tutto il tempo della rappresentazione fino al saluto e al ringraziamento finale
dell’intero cast. (video) Non solo, ma fanno piacere e
inorgogliscono i commenti degli attori del cast, i quali non si sono
risparmiati nel sottolineare pubblicamente sulle loro pagine web il calore e
l’accoglienza del pubblico calabrese, che ha tributato ad essi manifestazioni
di elevata simpatia oltre che, in alcuni casi, di evidente e apprezzata
competenza in questo genere di spettacolo. Tutto ciò sta a significare che la
pochezza del luogo è stata decisamente scissa dal valore e dalla caratura dei
calabresi, per niente assimilabili alla modestia del sito. È stata, tutto sommato,
un’esperienza vivificante, direi quasi catartica, che ha rimesso in circolo
la giusta tensione emotiva per ripescare, nella propria storia formativa, gli
elementi costitutivi della propria impalcatura culturale, godendo della sua
solidità ancora non indebolita dalle spinte di quel falso modernismo deformante
che considera il sapere quasi una palla al piede per le facili scalate
socio-economiche eticamente discutibili, quanto praticamente ed
egoisticamente utili. Ben vengano, quindi, queste
iniziative culturalmente importanti con l’augurio che la Calabria riesca, un
giorno o l’altro, a dedicare un po’ di quelle risorse economiche che non
riesce a spendere restituendole alla comunità europea, una struttura
territorialmente baricentrica (meglio se in provincia di Cosenza) che sia in
grado di ospitare grandi eventi artistico-culturali. Poiché anche questi sono
fattori di crescita per la gente di Calabria. Accanto agli sforzi per la
promozione della ‘nduja, si manifesti anche la
volontà di accrescere il potenziale culturale investendo non solo in
iniziative e in occasioni, ma collateralmente in siti idonei che collochino
autorevolmente la nostra regione tra quelle tradizionalmente note per
ospitare o creare eventi di rilievo nel settore. Anche questa è economia. E
poi, un ritocco all’immagine di questa sciagurata terra sarebbe oltremodo
opportuno di questi tempi. Luigi Parrillo |
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