18 maggio 2016
Innamorarsi di se stessi
Da
mesi, appollaiata su un cartello stradale sormontato da uno specchio
parabolico, una ghiandaia è diventata meta di curiosi, attratti da questo
uccello simpaticissimo che “gioca” con la propria immagine riflessa. Esibendo
alcune sfumature di azzurro intenso sulle proprie ali, la rincorre
inutilmente, cerca di afferrarla, quasi potesse penetrare nello specchio ed
entrare in un’altra dimensione come nella più classica delle situazioni
fiabesche.
-
È innamorata di se stessa – dicono
tutti.
Forse è vero. Forse no. Ma sarebbe bello. Sarebbe l’incipit di
una fiaba ambientata coerentemente in una città da sempre innamorata di se stessa
fino al punto di non accorgersi del coefficiente di decadenza indotta, che
cresce di giorno in giorno e che sembra non avere soluzione di continuità.
Ma questo esasperato narcisismo, di cui è ricca la letteratura
classica della quale siamo eredi storici, sembra essere uscita
pericolosamente dalla finzione letteraria, per contaminare uomini ed
istituzioni in un vortice implosivo pressoché inarrestabile.
Chi non ricorda il mito
greco di Narciso e della sua fine ingloriosa? E che dire del Narciso raccontato
da Ovidio, di cui si innamora la ninfa Eco (della quale, a causa di lui, non
rimane se non una voce lamentosa che si riflette nelle valli solitarie). Per
questi lamenti, Narciso si lascia morire struggendosi inutilmente.
È il fascino del “doppio”, il reale e il fittizio, il vero e
l’immaginario, che dall’Elena di Euripide, attraverso fenomeni
mitologico-letterari, che non è il caso di esplicitare in questa sede, ci
conduce fino al Giano bifronte e via via ci trascina autorevolmente ai giorni
nostri attraverso le opere di Pirandello, Calvino, Conrad, Dostoievskij, Stephen King e via discorrendo.
Sembra che il tempo, la storia, i secoli, non smettano mai di
regalarci esempi di narcisismo e di doppio, che nella loro diversità sembrano
accostarsi tra di essi più di quanto si possa immaginare. E più di quanto
essi stessi non credano. Si tratta di persone che immaginano di essere se
stesse e invece risultano essere ologrammi, proiezioni di sofisticati (a
volte neppure così tanto, per la verità) strumenti di volontà forti e
prevaricanti in forza delle quali agiscono e si esprimono, incapaci, persino,
di reagire anche quando riconoscono di non essere in linea con le proprie
inclinazioni di soggetto originale.
Estremizzando ulteriormente, non si può non pensare al
paradosso che Plauto propone allo spettatore in questo scorcio di dialogo del
suo Anfitrione:
Mercurio:
"Qual è il tuo nome?" - Sosia: "Nessuno, se non quello che mi vorrai ordinare".
L’autore latino scrive per suscitare il riso in teatro, ma
nella realtà queste situazioni sono un dramma per chi le vive e per chi ne
subisce gli effetti. Pensate a quanti “narcisi”, succubi nella loro “bella”
subalternità, si articolano superbamente nella pubblica amministrazione,
specchiandosi di tanto in tanto e confondendosi nel distinguere se stessi
dalla immagine riflessa nel proprio immaginario.
E così si piacciono, si innamorano di se stessi come la
ghiandaia che cerca una dimensione diversa al di là dello specchio parabolico
piantato sul ciglio della strada. Un po’ megalomani, forse, sono alla ricerca
di ammirazione per sé, insensibili quasi sempre ai desideri degli altri.
Secondo alcuni psicologi, essi tendono a vedersi come uniche e grandiose, si
sentono votate al successo e hanno la sensazione che tutto sia loro dovuto.
In questo disequilibrio interiore si smarriscono le direttrici
di sviluppo delle società, si problematizzano i rapporti tra il cittadino e
l’amministrazione pubblica, si contorcono le strade che dovrebbero condurre
verso un futuro sereno e migliore, si sbilancia il dialogo tra la persona e
chi la rappresenta nelle istituzioni in virtù dei principi inalienabili della
vita democratica.
Allora, lasciamo alla
ghiandaia “innamorata” le sue esibizioni narcisistiche. Accettiamo le sue
manifestazioni istintive come una casuale e involontaria lezione, che ci
aiuti a recuperare tutta la dimensione umana di cui siamo capaci. Gli specchi
– quelli parabolici in particolare – sono spesso deformanti e non
restituiscono immagini autenticamente fedeli. L’unico specchio fedele è la
coscienza. Che non va tenuta nell’armadio o riposta tra la polvere in
soffitta, né affidata in custodia a gente inadatta.
Essere se stessi è la cosa più bella che ci sia. E lo sanno in
tanti.
Luigi Parrillo
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