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La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente |
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27
giugno 2015 Le ragioni della regione Se qualcuno si chiedesse per quale ragione fossero state
istituite le regioni nel nostro Paese, non dovrebbe scomodarsi più di tanto
per andare alla ricerca di informazioni storico-politiche, costituzionali o
di altro genere. Basterebbe soffermarsi sulle cronache degli ultimi anni, che
si gonfiano quotidianamente a ritmo esponenziale, riguardanti queste
istituzioni le quali, dal 1970 ad oggi, si sono configurate, salvo rare
eccezioni, come un enorme truogolo nel quale chi ha potuto, e chi ancora può,
affonda le fameliche mandibole senza ritegno e senza soluzione di continuità. In Calabria, il bubbone era scoppiato da tempo. Altro che
ebola. Il nuovo cancro della società, la nuova peste che rischia di decimare
culturalmente ed economicamente il consorzio umano di questa sfortunata
penisola, che rappresenta la punta dello “stivale”, è proprio l’istituto
regionale al quale tutto si può attribuire tranne che di aver risolto
problemi annosi dei quali continua a soffrire terribilmente la nostra regione
tra colpe elettorali e stupide ingenuità diffuse. I fatti degli ultimi giorni, ancorché tutti da dimostrare ed
avvolti nel dubbio e nel sospetto fino a prova provata, sono il prodotto di
innumerevoli fattori socioculturali. Tra i quali spicca per evidenza un
trasversalismo politico-elettorale consumato sottobanco e finalizzato
all’offuscamento delle ideologie e dei principi filosofici di fondo, che
hanno generato gli ardori e gli entusiasmi da cui sono nati i vecchi partiti
politici, ma non hanno poi nutrito i soggetti che, per le stesse avidità
emerse in questi giorni, li hanno soffocati. I social network, da un po’ di tempo in qua, si stanno
infarcendo di citazioni e di immagini dal sapore quasi nostalgico, che da
destra, da centro e da sinistra (categorie ormai sbiadite, decolorate dai
nuovi “manovratori” della macchina politica), inneggiano, ripescandoli nella
storia recente, a uomini politici di elevato spessore, che hanno costruito
l’Italia democratica sulle ceneri di un totalitarismo da operetta che aveva
regalato agli italiani lutti e miseria. E si che anche oggi le operette non
mancano sulla scena “politica” (si fa per dire) che si apre ai nostri occhi
sempre più sbigottiti. E pensare che, come elettori, avremmo dovuto ripescare
– senza, tuttavia, dare ad esse valore scientifico assoluto – le teorie
lombrosiane, dalla cui applicazione (empirica, naturalmente) avremmo potuto
trarre indicazioni utili per dare o negare il nostro consenso elettorale a
figure umane oggi rivelatesi non perfettamente in linea con i principi
basilari del vivere onesto ed autorevole sul piano del comportamento e delle
funzioni. Tutto ciò premesso, qual è, quindi, la ragione che tiene in
vita le regioni e la nostra in particolare? Probabilmente la stessa per la
quale il cinquanta per cento degli elettori italiani non si reca più alle
urne. A quanto pare, un messaggio per ciechi e sordi, quest’ultimo! A meno che non si risulti titolari di un tale grado di
spregiudicatezza per il quale essere eletti anche dal venti per cento
dell’elettorato viene considerato utile non già per governare un paese o una
regione, ma per continuare a perpetrare scippi di pubbliche risorse in barba
alla gente e ad una giustizia che traduce taluni bizantinismi ipergarantisti
in una sorta di falsa impunità, trascinata di cavillo in cavillo per tempi matusalemmici. Così, una categoria degradata persino nell’immagine occupa
gangli di potere, si esibisce in giro per la regione e per il mondo
millantando successi miracolistici, dichiarandosi artefice del destino dei
popoli e agnello sacrificale immolato sull’altare del bene comune. E riscuote
l’applauso di gente che non sa perché non vuol sapere, non vede perché non
vuol vedere, non sente perché non vuol sentire: «Tanto, fanno tutti così!» Ogni tanto, qualcuno grida invocando la galera. Poi si consola
pensando che non li mettono “dentro” per evitare che il carcere diventi un
tempio religioso, con tutti questi “santi” in cella, che darebbero luogo a
lunghi pellegrinaggi salmodianti e difficili da gestire come quelli medievali
a Santiago di Compostela. Da qui, la rassegnazione e l’accettazione supina e volontaria
del cilicio e del gatto a nove code
in segno di obbedienza e di sottomissione, precipitando dal ruolo di
cittadino nel baratro della sudditanza. Si troverà mai una soluzione a questo dramma che si consuma
sulla pelle dei cittadini? Ci sarà mai una levata di scudi generale che dia
un segno tangibile del risveglio della gente? Sapremo, una volta o l’altra,
scegliere gli uomini “giusti” per il futuro della nostra terra? Riusciremo,
una volta per tutte, a solennizzare con il nostro coraggio le vere ragioni
delle regioni? La Calabria ne ha più bisogno delle altre! Luigi Parrillo |
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