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ottobre 2014 Un tempo si moriva per un ideale Nonostante i severi moniti di Papa Francesco,
le cronache giornalistiche, ormai, ci sommergono dalla mattina alla sera in un
oceano di corruttele reiterate, impunite, sbandierate con sicumera, camuffate
da scaltrezza, perpetrate per necessità politiche, confessate e subito dopo
ricusate, sussurrate e dimenticate, comunque spalmate a mo’ di maquillage su un esercito di facce toste
esibite pubblicamente senza un briciolo di pudore. Alla mia età, queste
cose destano scalpore. E quando verifico che presso alcuni settori della
pubblica opinione vengono apprese con leggerezza e accettate con
rassegnazione, o giustificate con un sorriso scemo per la serie “lo fanno tutti”, mi sento un uomo
fuori dal tempo e dalla storia. E mi spaventa la previsione di un futuro
avaro di valori nel quale, stando così le cose, saranno costretti a vivere i
nostri figli e i figli dei nostri figli. Un tempo si moriva per
un ideale o per un’idea. Oggi il solo pensiero di morire (o, più
semplicemente, di soffrire) per qualcosa, ti fa abbandonare la cosa stessa,
quand’anche fosse di tale importanza da pregiudicare la sopravvivenza di un
popolo o, restringendo il campo, di una comunità. Tra le storie che
arricchiscono di vicende edificanti l’aneddotica del popolo olandese, si
racconta di un ragazzino che, vista una piccola falla in una delle dighe che
proteggono dalle inondazioni quelle terre altimetricamente depresse, ha
infilato la sua piccola mano tra le pietre della diga, fermando il flusso di
acqua gelida fino all’arrivo di qualcuno che riparasse il danno. Il piccolo
olandese finì col perdere la mano, probabilmente a causa del congelamento, ma
era soddisfatto per aver salvato il villaggio dall’inondazione. E la storia del nostro
Risorgimento è costellata qua e là di episodi di adolescenti e di giovani
eroi che hanno immolato la propria vita, non soltanto la mano, per gli alti
ideali di cui era infiammata la propria anima. Oggi, da noi, se qualcuno decide di
infilare una mano in qualunque posto, lo fa con ben altre intenzioni. E se
vede una piccola falla da qualche parte, impugna con la mano l’attrezzo più
idoneo per allargare la falla stessa, vi sistema sotto un contenitore
capiente e resistente per appropriarsi di quanto fuoriesce dall’apertura, ne
trasferisce il diritto di proprietà, invocando la protezione della legge che
non fa obbligo esplicitamente di esporre la targhetta «Divieto di attingere». Nessuno scrupolo.
Nessuna meraviglia. Un paese di furbi è fatto così. Ciò che stupisce è il
cittadino che approva ed applaude. Stira verso il basso, con l’indice della
mano, la palpebra inferiore dell’occhio e sorride compiaciuto (ma sarebbe
meglio dire “complice”). L’altro, dopo la rituale pacca sulla spalla, gli
rivolge violentemente il braccio destro in avanti col pugno chiuso,
bloccandone a mezz’aria la corsa col palmo della mano sinistra. E abbandona
il campo alla ricerca di nuove fonti. Perfetto! Ecco l’uomo
giusto per un popolo genuflesso. Luigi
Parrillo |
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