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25 ottobre 2014 La
politica per tifo Una
delle stranezze italiane, che in Europa e nel mondo nessuno riesce a
comprendere, è la consuetudine inveterata di fare politica per tifo. Mi spiego: l’appartenenza (spesso casuale o per humus
familiare) ad una compagine politica (vogliamo dire “partito”?) diventa un
sorta di collante perpetuo che, nella quasi totalità dei casi, vincola ad
essa il cittadino, vita natural durante. Vuoi vedere che è proprio in virtù di questo fenomeno che i
nostri politici, nessuno escluso, non possono fare a meno del famigerato “vitalizio”? Ma, a parte l’inciso ironico, è come se dare fiducia per la
prima volta ad una formazione politica, o ad un personaggio che vi
appartiene, desse vita ad un debito ideologico (ideale non credo proprio) perenne, una sorta di imprinting, che impedisca di esprimere
persino temporanee simpatie verso quanto accade in altri settori della
politica. Si verifica il paradosso che una evidente, palpabile sciocchezza
emersa dal proprio idolo diventa vangelo di fronte ad una incontrovertibile
saggia verità offerta dal campo opposto. Si tratta di una vera e propria
scelta di campo acritica ed irrazionale, che non si sofferma, tuttavia, a
verificare i movimenti scambistici che violano i
confini dei rispettivi settori, fidando sugli atteggiamenti appena
denunciati, i quali risultano essere il virus che infetta e ammala alcuni
settori della società italiana. Da ciò, si dà per scontato, nella percezione generale, che i
soggetti eletti per governare una comunità debbano farlo per favorire, sempre
e comunque, i propri simpatizzanti e danneggiare, per ritorsione e con
cattiveria, quanti non li hanno gratificati della propria fiducia. Il senso
del noi e degli altri, tanto utile ai fini delle
dinamiche sociali democratiche, non può tradursi in una sorta di xenofobia
interna per cui si giustifica addirittura il telebanesimo
socio-culturale di alcuni quartieri o di alcune contrade. Pensate un po’ cosa accadrebbe se un medico, per esempio,
dovesse ragionare in questi termini. Eppure, di fronte ad un male pubblico, c’è chi vorrebbe che la
diagnosi, ed eventualmente la terapia, venisse effettuata da un medico di cui
non si conoscano le simpatie politiche. O che la metaforica ambulanza non
recasse i simboli della associazione di appartenenza, altrimenti non vi salirebbe
sopra. E quando la ferita dovesse diventare cancrena, ecco pronto a
scatenarsi l’urlo scomposto per rovesciare accuse e responsabilità
all’indirizzo degli altri,
colpevoli di aver esibito simboli distintivi non graditi e di non aver
manifestato pensieri anonimi. Non è nascondendo o mascherando la propria identità che si è
degni di appartenere al consesso civile. (O dovrei scrivere “consenso civile” per risultare simpatico a qualcuno?). Ciascuno di noi è
utile nella propria diversità. Le omologazioni lasciamole a chi ha necessità
di sopravvivere attraverso di esse, nonostante non facciano onore ad alcuno. Le idee, da qualunque parte provengano, hanno valore
intrinseco. Ed è per il loro valore che vanno considerate. Se allergia si
vuole manifestare, la si abbia soltanto per le casacche arlecchino, che si
adeguano a qualunque ambiente ed a qualsiasi circostanza. L’uomo, nella sua dimensione di “uomo”, non si traveste. Egli
è quello che è nella sua accezione più profonda ed autentica. Il resto è
stato meravigliosamente descritto, con una famosissima onomatopea, da
Leonardo Sciascia. Luigi Parrillo |
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