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giugno 2014 “Non
lasciatevi rubare la speranza” Spianata di Sibari.
Lì, dove una manciata di secoli prima di Cristo approdarono i coloni greci e
diedero una nuova svolta alla civiltà e alla cultura del posto, è atterrato,
ieri mattina, il pontefice giunto dall’altra parte del mondo per recare il
suo messaggio ad una regione tra le più povere d’Italia. Una povertà, quella calabrese, ammantata nei panni laceri
della cultura del pressappoco, dai cui strappi traspare il sussiego di una
classe dirigente inadeguata nella sua accezione generale (tranne rare
eccezioni edificanti); si scopre - tra silenzi omertosi e vili acquiescenze -
un substrato di tollerate illegittimità; rumoreggia la innocente (?)
creduloneria di masse trascinate - da sempre - di qua e di là secondo volontà
spesso non condivise, ma assecondate. Alla folla oceanica,
preoccupata in gran parte, da quanto si è visto, di comparire in una qualunque
inquadratura della più insignificante telecamera di qualche altrettanto
insignificante emittente televisiva di estrema periferia, Papa Francesco
lanciava uno dei suoi messaggi più forti: «Non lasciatevi rubare la speranza!» Una frase troppo lunga per una folla distratta. Bastava
soltanto che dicesse: «Non lasciatevi derubare!» Cosa
rimane, oggi, della visita pastorale di Francesco, vescovo di Roma e capo del
cattolicesimo, nel cuore della Calabria? Quale impronta crismale la lasciato
nella marea umana spalmata dall’evento sulla piana di Sibari, che rimanga
come sigillo permanente, una volta ammainati striscioni e bandiere e riposti
nei cassetti cappellini a fazzoletti gialli? «Non lasciatevi rubare» non solo la speranza, ma qualsiasi
cosa vi si possa sottrarre, che non sia soltanto tangibile fisicamente. Penso
alla dignità, ai diritti, al futuro, alla salute, al benessere generale, alla
sicurezza, e via di questo passo. Il grande palco che ieri biancheggiava
sulle rive dello Jonio, era il pulpito virtuale che sintetizzava, nelle sua
linee scarne, gli intagli lignei o le sinuosità marmoree dei pulpiti di
periferia, dai quali spesso si profonde più retorica che precetti. Francesco va dritto all’anima, e questo è l’insegnamento. Egli
usa parole chiare e chiama le cose con il loro nome: questo è coraggio.
Indica e stana i colpevoli: non collude. Vive la fede attraverso l’umiltà e
la modestia: è l’esempio. Una visita fugace, un lampo. A distanza dal cerchio delle persone che contano, le quali,
probabilmente, avrebbero ambito essere loro a dargli la “benedizione” per la
venuta in Calabria, al fine di consacrare quella che sta diventando una nuova
religione parallela dalle divinità inamovibili. Interpretiamo anche così la visita di Francesco. Consideriamola
una presa di distanza da ambienti troppo chiacchierati per essere frequentati
con disinvoltura. Leggiamolo come un messaggio rivolto a quanti non si fanno
scrupolo di fiancheggiare uomini delle istituzioni non perfettamente in linea
con gli insegnamenti evangelici. Non obblighiamo nessuno a scacciarli da
casa, ma dal tempio si! È forse il tempio, oggi, accanto ad una scuola di periferia
che si affievolisce di giorno in giorno per convinzioni deboli e non
costantemente affermate, l’istituzione che può rappresentare un correttivo
alle devianze socioculturali, che mortificano l’immagine della società
contemporanea. L’importante è che le chiavi delle sue porte siano custodite
in mani forti e sicure, scevre dalla tentazione di asservirsi al potere
comunque affermato e comunque espresso. Con Francesco, l’esempio non manca. Luigi Parrillo |
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