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7 settembre 2013 Tre organi di stampa (vedi), tre stili di informazione, tre
diverse velature di retro pensiero, ma tutte in linea sulla descrizione dello
squallore della vicenda che si è appena conclusa, hanno regalato all’opinione
pubblica, sempre più confusa ma - finalmente libera dal peso mortificante di
una amministrazione troppo sottodimensionata per la città -, un quadro
d’autore, che uno sceneggiatore teatrale avrebbe descritto più o meno così: «Un fioco lumicino, ormai, rischiarava lo scenario di per sé
deprimente del cast di figuranti che si muovevano allo sbaraglio negli ambienti
di Palazzo Santa Chiara. Dietro le quinte scalpitava, impaziente, qualche
subentrante per defezioni chiaroveggenti dalla tempistica ad orologeria. Gli
attori veri, però, vale a dire i protagonisti della rappresentazione
tragicomica, ripassavano il copione fuori scena, concertando con il
suggeritore i modi e i tempi delle battute. L’imperatore – il cui ruolo era
riservato al primo attore (o, se volete, al capocomico) - ripassava il monologo finale e studiava la
mimica ad effetto con la conclusiva pacca sulla spalla. I costumi di scena, scarni e trasandati, rendevano la
rappresentazione ancora più deprimente nel suo drammatico squallore. Si
attendeva soltanto l’ordine perentorio: «Spegnete il lumicino|» E l’ordine calò, come la mannaia sul collo del condannato a
morte. Con l’ordine calò anche il sipario e il pubblico stordito non seppe
più se applaudire o recitare il mea
culpa per aver troppo a lungo sopportato la scadente recita a soggetto. L’imperatore (alias primo attore, alias capocomico) scese in
platea senza togliersi di dosso il costume di scena, che lo faceva sentire
onnipotente, per riscuotere l’abbraccio prezzolato della claque. Le slinguate servili si sprecarono e ciò lo fece sentire,
per un momento, padrone del mondo. Nello stesso tempo, si sorprese a pregare
in cuor suo il Padreterno (fino a poco tempo fa considerato più o meno un suo
pari) di non farglielo mai vedere a scacchi. Nulla di sorprendente. Come molti sanno, il copione era stato già
scritto nell’estate del 2009, secretato fino a poco tempo dopo, ma messo in
scena al momento opportuno con precisione millimetrica, salvo piccole,
irrilevanti sbavature dovute all’inesperienza di qualche comparsa, che ha
arricchito la trama, appunto, di sporadiche “comparsate”.» Ci si perdoni la presunzione, ma erano scene minuziosamente
previste nei nostri commenti abbondantemente reiterati in questo sito web.
Non più tardi del 13 agosto scorso, avevamo anticipato, senza grandi sforzi
previsionali, la conclusione della vicenda amministrativa (e se dicessimo la
sceneggiata?) di Termine e compagni quasi nelle modalità scenico-politiche
nelle quali si sono naturalmente verificate. E adesso? Adesso, a sipario chiuso, ci sarà l’inevitabile scaricabarile
circa le responsabilità della débacle.
Nell’indegno palleggiarsi delle colpe, vere o presunte, e nella elencazione
accusatoria dei danni, pubblici e privati, prodotti dalla compagnia, qualcuno
ci rimetterà la faccia, qualcun altro la futura candidatura. Altri penseranno
di risultare immuni per il solo fatto di essersi defilati. Rimarrà,
presumibilmente non corrosa, o appena intaccata, dall’acido del risentimento,
la scorza spessa e indurita nel tempo dei soliti noti i cui nomi sono ormai
scolpiti nella pietra della politica locale, opera di scalpellini semianalfabeti,
ma bravi - perché naturalmente vocati – nel tramandare ai posteri le tracce e
le testimonianze di fenomeni decisamente non edificanti. Rimane atterrato, dai disegni scellerati di qualcuno, il povero
Termine, costretto a subire la sofferenza di una lunga e crudele agonia,
prodotta dalla scriteriata e spregiudicata strategia politico-affaristica di
chi ne aveva già decretato la fine ingloriosa fin dalla nascita. E pensare che, agli inizi della primavera del 2009, qualche
inascoltata Cassandra lo aveva predetto. Ma fu inutile tentare di far
ragionare chi aveva deciso il cammino politico di “Unione e cambiamento” a
testa bassa e con i paraocchi ben fissati sulle tempie. Dall’altro versante,
una scellerata sicumera e una cocciutaggine fuori luogo fecero da contraltare
e agevolarono le scelte effettuate. Si leggeva, però, nell’aria e nelle cose
l’inopportunità politica e strategica di una coalizione che, alla fine,
avrebbe vinto per un pugno di voti inferiori alla ventina. Era chiaro, fin
dalla notte del successivo nove giugno, che gli eletti avrebbero creato danni
e i non eletti avevano già pagato inesorabilmente lo scotto delle scelte
politiche sbagliate, che pure avevano voluto e caldeggiato; quasi imposto,
potremmo dire. Ora, i fatti ci costringono a verificare che ad un inizio
caratterizzato da un successo dimezzato, corrisponde una fine ingloriosa, ma
largamente meritata. E nessuno può dire: «Ma…! Se…!». La storia non si scrive
con i “ma” e con i “se”; si legge sui fatti e i fatti sono quelli che si sono
appena verificati. Ma ora vediamo: cosa ci lasciano Termine, la sua giunta e i loro
complici? Una sanità allo sbando, una scuola che non si sa come e dove
comincerà e se comincerà, una città i cui piani di sviluppo (se ce n’erano)
rimarranno monchi o nelle mani di qualche speranzoso faccendiere a cui la
città interessa poco o niente. Bell’affare! Chi non voleva il Commissario prefettizio prima, se lo prende
ora. Come mai? Quale ragionamento sottile ha indotto gli anticommissario di ieri a far
fuori oggi il povero Albertone? Chi ci guadagna? E che cosa ci guadagna?
Perché gli strateghi di turno hanno creduto che questo fosse il momento più
opportuno per buttare a mare il sindaco? E se fosse tutta una manfrina? È
lecito sospettarlo? Pensando agli assessori che si sono dimessi uno dopo l’altro,
chiediamoci: Perché lo hanno fatto? Avevano capito qualcosa? Se si, che cosa? Sono tutti interrogativi che ci lasciano perplessi e che dovremmo
continuamente riportare alla mente, mentre si stanno mettendo in campo, da un
bel po’ di tempo, le manovre per la successione a Palazzo Santa Chiara.
Quando ci chiederanno consensi o inviti a partecipare, guardiamo attentamente
quello che c’è dietro. Non fidiamoci più della facciata, che potrebbe nascondere
l’inganno. La città nella quale viviamo è nostra e, pertanto, abbiamo il
dovere civico e morale di scegliere bene le persone alle quali ne affideremo
il governo. Da oggi in poi, ci faranno tante di quelle carezze da renderci la
pelle levigata come una palla da biliardo. Stiamo alla larga e decidiamoci
finalmente ad usare soltanto la nostra testa per le scelte importanti; le
pressioni hanno sempre un secondo fine. Non facciamoci chiedere nulla:
decidiamo da soli e basta. Luigi Parrillo Segnalibro |
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Figura 1 |
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Figura 2 |
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Figura 3 |
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