ORME

di LUIGI PARRILLO

 

Note introduttive di MIMMA MITIDIERI

 

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Proprietà letteraria riservata

 

Stampato in Italia da Tipolitografia s.r.l. di San Marco Argentano (Cosenza)  -  1993

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Amia figlia,

che mi significa totalmente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PREMESSA

 

 

 

 

 

Usare le parole come un vetrinista, appendendovi talora, appoggiandovi altre volte, affidando loro comunque i sentimenti, le emozioni, gli stati d’animo cha fanno di ogni soggetto umano un essere vivo, energia in fermento nel contesto sociale del proprio tempo, è ragione, molto spesso, di quella attività di pensiero che, con un pizzico di presunzione, si definisce generalmente “poetare”.

Comporre versi, in ogni caso, non sempre vuol dire fare poesia e, nella fattispecie, è soltanto una esercitazione mentale, un voler dare alle cose un aspetto più accettabile: mettere i lustrini al dolore, togliere le gramaglie alla morte, attenuare le delusioni, esorcizzare la sofferenza, esaltare gli affetti, patinar d’oro il passato, sublimare i ricordi, imprigionare la speranza, offrirsi, nella basilica del tempo, con la propria corruttibilità fisica in contrasto con la immortalità del pensiero.

D’altra parte, non sarebbe sciocco tumulare con i propri resti quei residui di energia che non si sono dispersi nei fumi grigi del quotidiano?

Piccola “eredità d’affetti” questi poveri versi: sono l’esultanza, i salti di gioia d’un pensiero adulto che non può più, per sciagura d’anni, ritornare bambino; le lacrime “colte”, la commozione verbale di fronte alla serenità di rari momenti idilliaci che illanguidiscono lo spirito fino alla tenerezza estrema; l’esplosione disperata di dolori strazianti, irreggimentati spesso nella costrizione delle “maniere”, ma che sanguinano attraverso consonanti e sillabe animate da una penna irrequieta, impicciona e pettegola, che non sa tacere i segreti più profondi e nascosti.

Un diario inutilmente celato fino a ieri, dunque, e che oggi disvelo a mia figlia, rappresentante, per delega di vita, delle nuove generazioni e della loro fretta di crescere; un bisbiglio complice all’orecchio di quanti vorranno, assieme con me, non perdere memoria di ciò che è stato; un lungo sospiro su tutte le scene interrotte sul palcoscenico della vita, con la presuntuosa, umana speranza di riprovare.

L’AUTORE

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOTE INTRODUTTIVE

 

 

 

 

 

Orme, tracce lasciate nel tempo che scorre uguale e sempre diverso, segni indelebili in un cammino individuale ed universale, frammenti di storia di un uomo e dell’uomo, momenti di un dialogo aperto, che si rinnova, si estende, si libera e ritorna consapevole su se stesso.

Un fascio di liriche ispirate dall’esperienza concreta e umanissima della gioia e del dolore, mossa da anelito autentico di conoscenza, espressione di una sensibilità e di una filosofia di vita che si sviluppa tra orizzonti consueti, ma sempre tesi alla conquista di spazi esistenziali più ampi. Conviene dir “fascio” perché nate come i fiori spontanei del territorio, cresciute all’ombra ed al sole del luogo, maturate entro confini noti, curate e raccolte con laboriosa e sapiente perizia.

In ciascuna è un’occasione, un motivo quotidiano, un volto, un paesaggio, un evento reale a suggerire lo spunto, da cui trae alimento la situazione poetica, che si carica immediatamente di singolarissimi accenti, trasfigurando idealmente ogni tratto e liberando il vissuto, il razionale e l’inconscio a creare immagini sospese tra la realtà e il mistero.

Anche laddove il momento meditativo sembra sopraffare quello lirico, alla scoperta di un universo ignoto, arcano, inaccessibile, cui tendono il pensiero e lo spirito di un uomo mai pago, animato da una fervida, genuina, nobilissima “curiositas cognoscendi”, tuttavia mai  la riflessione si impone come dato puramente razionale e cerebrale, ma diventa prosa anche quando è racconto, mai si nasconde al lettore, sotto la veste talvolta discorsiva, il palpito sincero e libero dell’animo, e d’altre parte mai tale palpito è smisurata e soggettiva passione.

Il cuore è filtrato dalla ragione e la ragione dal cuore, in un alternarsi continuo, sul piano del significante e su quello del significato, di sentimento e pensiero, di silenzi e di suoni, di luci e di ombre, la cui consonanza riflette il ritmo stesso, alterno e composito, dell’esistenza ed insieme concorre all’espressione e comunicazione di quello stato di febbrile tensione morale che è alla radice di questa movimentata vicenda di un uomo e della sua vena lirica.

Tensione di fronte al mistero, bisogno di andare oltre, timore e speranza, fiducia e caduta, ed ancora «scintilla che […] bruci fra le ceneri di un fuoco spento», desiderio di liberazione ed ansia di vita, «trasmigrazione dell’anima in più ampio universo». Queste le note più intense e vibranti della poesia e dell’esperienza di un uomo che non accetta catene, che non si rassegna all’uniforme, al banale, al mediocre ed invoca piuttosto «il bacio della terza Parca al filo d’una vita senza accenti».

Anche le parole, dettate, suggerite, accostate al fine di coglierne un singolare, personalissimo “accento”, in posizione visivamente e concettualmente isolata laddove più urga il motivo o momento espressivo, con intenzionale omissione di elisioni e segni di interpunzione, e le metafore ardite, i giochi verbali, le figure del suono e del significato, l’incalzare del climax ed altrove, altrettanto incisivo, il disinvolto anticlimax, l’amaro, sornione o sprezzante aprosdoketon, che smorza il pathos ma accentua la suspence, concorrono tutti a sottolineare e seguire il flusso intenso e sofferto del pensiero ed il fervido moto dell’animo, quasi voce tra sé e sé, eppure sapientemente elaborata, finemente cesellata e capace di dissimulare abilmente la dotta ricerca formale, impreziosita dalla lezione dei classici, doviziosamente acquisita ed umanamente assimilata, che non disturba l’orecchio poco edotto, mentre è eco gradita, consapevole e viva per l’orecchio avvezzo e ben ammaestrato.

E su tutto, il senso del tempo, come entità preesistente alla deità (quale essa sia per un uomo la cui “fideità”, ogni sua fides, è essa stessa deità), il tempo increato e increabile, in cui tutto passa, che non ci attraversa ma che noi attraversiamo. E la memoria, il ricordo, il ritorno, uniche spie e possibilità dell’eterno, un eterno in cui crede, benché solo attraverso tali potenzialità retrospettive del pensiero e dell’immaginario.

Poesia delle piccole cose, degli affetti familiari e consueti e al tempo stesso dei grandi interrogativi esistenziali; poesia libera, semplice, quasi estemporanea e tuttavia oscura, difficile, vaga, talvolta rarefatta ed evanescente, che dice e non dice, e lascia libera l’altrui immaginazione così come è libera la sua ispirazione ed il quotidiano vissuto cui attinge; poesia che parla al cuore e alla mente, che invita a riflettere, ma senza artifici o sbarramenti culturali e sociali, senza costrizioni o pregiudizi, bensì facendo leva sulle attitudini individuali a sentire, avvertire, interpretare; poesia del contingente e dell’universale, del comune e del paradossale, in cui i dati reali, concreti, tangibili si contemperano e trasfigurano nella dimensione cosmica del vivere e del pensare; poesia che taglia, che scava, che brucia, che non indulge alle ferite del nostro tempo, anzi le sferza talvolta aspramente; in cui tuttavia anche il grido che lacera e sgretola esorta a ricominciare ed a ricostruire «sui cocci»; in cui il dolore più profondo e sofferto non è mai sconforto, disperazione, annullamento, non è mai austero sgomento o sterile rassegnazione, ma ha in sé e riesce a trasmettere una sommessa, serena speranza consolatrice, che fa capo ad un equilibrio classicamente impeccabile e si esprime nel maturo dominio formale.

Spazio libero, aperto, altra galassia, dove l’arte e la bellezza hanno una loro perenne dimora e ci turbano potentemente, ma ci aiutano anche nella vita di sempre e nel nostro umano, legittimo, necessario sognare.

Spazio utopico, dunque, ma non troppo, perché non è fuga, ma scavo, penetrazione profonda nelle pieghe dell’essere, ansia di libera conoscenza, che non ha legami né supporti logici, ma aspira ad una logica altra, gravida di verità; esigenza di ritrovare un approccio mitico, senza facili risposte, ad una realtà che ci affanna, ci tedia, ci angustia, ma pure ci affascina, ci commuove, ci chiede consigli, ci esorta a cantarla.

Si potrebbe osservare che in questi versi nati da situazioni reali ci sia poco che assomigli davvero alla realtà, poiché lo sguardo e la parola del poeta tendono, inconsciamente o intenzionalmente, a trasfigurarla o a sublimarla, ostacolando ogni tentativo di individuarvi un luogo definito, un volto noto, un momento preciso anche laddove sia riconoscibile l’iter della vicenda biografica e lo sviluppo di una cronologia che pure c’è, benché si dissolva nelle tappe di un pensiero e di un canto senza spazio e senza tempo; ed allora è lecito chiedersi se, come metodo, il realismo sia uno strumento efficace in poesia o non piuttosto un limite, e se non sia invece compito dell’artista contribuire a far si che la vita imiti l’arte più di quanto l’arte non imiti la vita.

Certo è che qui, a voler leggervi una visione o lezione di vita, dogmatizzata in paradigmi assoluti, si rischia di affaticarne l’intendimento, di  analizzarne il momento lirico puro, di costringerne l’ispirazione entro schemi rigidi, estranei alla sensibilità di questo uomo; è un dato di fatto che ci si trova di fronte a significanti che possono assumere significati diversi, in cui, al di là del messaggio che il poeta vuole comunicare, c’è quello che ognuno recepisce per sé.

Ciò non significa che, inseguendo l’essenza, a lui sfugga il dato immediato o concreto, poiché anzi la forza evocativa di alcuni indimenticabili quadretti, la suggestione di qualche estemporaneo ritratto o acquerello sta proprio nell’evidenza plastica delle forme, nel realismo pittorico dei tratti, nella successione talvolta filmica delle immagini.

Ed è sempre la parola il tramite fra un piano ed un altro, lo strumento di passaggio da una dimensione reale ad una astratta o ideale; la parola, che si carica di significati e funzioni, che diventa elemento sonoro, cromatico, pregnante, che il poeta preferisce isolare quando intende conferirle un senso proprio nonché in relazione con quello che segue, quasi, appunto, come in un montaggio filmico, dove la breve sequenza isolata abbia non solo valore in sé, ma riesca anche a preparare quella successiva, la quale no può essere che la necessaria ed unica conseguenza di ciò che è stato anticipato dalla precedente, seppure breve ed apparentemente di scarso significato.

In una società in cui la comunicazione, in tutte le sue forme, ci sommerge, ci possiede, ci domina, dove il linguaggio si carica di oppressività, si esaspera, si moltiplica e l’espressione artistica sfrutta possibilità tecnologiche sempre più accattivanti e coinvolgenti, capaci di interessare anche l’espressione poetica, può sorprendere che vi sia qualcuno che inviti per un attimo al silenzio e quindi all’uso pieno e consapevole del mezzo espressivo, qualcuno che creda ancora alla forza insondabile della parola e dell’arte, che non rinunci a porsi la domanda dell’essere ed alla ricerca di un senso «ove questi s’era perso».

È qui una delle chiavi di lettura di queste liriche; altre interpretazioni ciascun lettore, come è giusto e opportuno, potrà cogliere da sé nelle pieghe del testo, che tuttavia non  tarderà a rivelare ad ognuno come l’interrogativo costante dell’autore, la sua vigile tensione emotiva, la ricerca continua e perennemente inappagata di un approdo siano in lui condizione totale, in quanto sia creativa sia esistenziale di un uomo che, restio a vivere ai margini di una società senza centro, si impegna in essa a ritrovarlo, perché padrone di sé e della sua solitudine, la quale non gli è mai soltanto catena pesante e opprimente, ma che si sforza di trasformare in adesione libera, piena ed autentica all’esistenza.

MIMMA MITIDIERI

 

 

 

 

 

 

 

 

SEZIONI

 

 

PRELUDI

IAM ADOLEVI

MEMORIE

COMMEDIA

ORME

UOMINI

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PRELUDI

 

 

“Codesto solo oggi possiamo dirti,

ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”.

(E. Montale)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1

Tracimano

cascate di parole

spumeggianti

abbracci cerebrali

ad esorcizzare

intellettuali solitudini

che mai si fondono

col tuo essere donna

 

Inturgidiscono

i tuoi seni di madonna

innati magnetismi

che il pregiudizio

offende

e l’occhio e il fianco

tradisce

 

Tùrbina

nel vortice dell’indistinto

l’ali scomposte

indecisa

la viltà di tuoi condizionali

 

Il dubbio preme

sull'addome piatto

delle voglie ignorate

 

Il tempo implora

d'esser colto

ed immolato

sul tuo altare

di dea superba

ché non sfugga

la levigata fragranza

del tuo incarnato

 

Si fondono i pensieri

il tuo

il mio

in caldi amplessi

dai toni univoci

stoltamente prudenti

e cantano armonie

d’antica prosa

che solletica i sensi

e fa vibrare

l’ultimo diaframma

teso ad infrangersi

all’urlo della Natura

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2

Liberandosi

brucia e si contorce

il fuoco del camino

dall’abbraccio corto

e dal respiro ipnotico

che cattura lo sguardo

 

Volteggia

sugli arti monchi

di lecci maculati

e rugosi cerri

rossa odalisca

dall’infuocata nudità

la fiamma

 

Sui rami del mandarino

tumescono

sapori d’inverno

succosi come il desiderio

che la tua mano

non coglie

né la mia

vili

 

Tra le braci

fumano

odorose scorze d’agrumi

e nei caldi effluvi

si accende

il pensiero di te

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3

Percorro sulla pelle

cesellate galassie

di efelidi

da suggere

orbitando sulla costellazione

di Venere

 

Inseguo

roridi aliti solari

che tracciano i confini

dei sensi

 

Oltre il muro del reale

esplodono

cosmici orgasmi

a liberare energie universali

per amori folli

e grandi illusioni

nel nostro infinito

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

4

Il tuo sonno

non coglie il silenzio

soffice

adagiato sui tetti

da briciole alate

di neve notturna

che incotona

le stimmate del tempo

dagli aspri orli

e scrostati

sui muri

dei vicoli antichi

tiepidi

di storiche umiltà

 

Profuma di notte

il lento

del tuo respiro

ritmo sopito

e dolce scompone

l’abbandono

delle ciocche fulve

negligenti

sui pizzi

vanamente preziosi

del sofferto guanciale

 

Invano

si eleva la voce

dell’anima

ad insuperbire

silenzi celesti

ove si svela

alta

per alti sentire

ove la carne si fa pensiero

d’amore

e travalica il tempo

cui rapisce l’essenza

 

E non coglie

il tuo sonno

la vertigine bianca

che confonde

il rincorrersi lento

di cristalli di cielo

tra i lampioni

delle mille notti

immobili

di veglia

intirizziti compagni

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

5

Cavalli alati

le criniere al vento

fili di rubino

sulla luminosa cecità

del mio volto

muove l’amore

sulla scacchiera della vita

 

Sul nero e il bianco

tenebra e luce

notti e giorni

e tormenti

e speranze

mobili alfieri

sgranano il futuro

sotto le torri

di regina accorta

che non vinta s’arrende

 

per lo scacco al re

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6

Preludi di sguardi

dalle mute sonorità

intese

Tripudio di mani

impazzite

Soffocate preghiere

bevute con rabbia

nell’apoteosi

di due corpi

in concerto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7

Il piagnisteo imberbe

di un violino acerbo

raggela

la mia sera inquieta

raccolta in un pugno di stelle

indifferenti

sul mio sguardo perduto

 

Pietosa marea di silenzi

la notte

serra le imposte

sul lamento immaturo

 

Nell’abisso ovattato

s'empie il mio pensiero

e spazia

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizio sezione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IAM ADOLEVI

 

 

PRELUDI

IAM ADOLEVI

MEMORIE

COMMEDIA

ORME

UOMINI

 

 

 

 

 

“È peccato pensare che tu non sia una vestale:

sei entrata con una sedia,

come da uno scaffale hai preso la mia vita

e via ne hai soffiato la polvere.”

(B. Pasternak)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I

Ho teso l’anima

all'ascolto

 

Un segno

 

Forse

 

Voglia di ricadere

nel malessere

d’amare

 

Spegnere la sua voce

esplosa

vibrata

alta sui righi

della vitalità

Soffocarla

d'intesa

 

Non parole

 

Occhi

come mani

 

Corpi

 

Amore a tutto tondo

senza memoria

senza confini

Amore senza freni

e senza guida

Totale

Viscerale

Irrazionale

 

Sia pure l’ultimo

 

Ma che sia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

II

Tu

 

E la scintilla

diventa

fuoco

 

Io

…ho freddo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

III

Noi

 

Eroi silenti

che lo stupore

d’inatteso complesso

stordisce

 

Ma resiste

l'avviluppo di civiltà

al dibattersi

dell’Io

 

Strappiamo

il primo velo

e ci imprigioni a lungo

il restante groviglio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IV

Una storia

nelle storie

di noi

 

Germe del nuovo

nel vecchio

di noi

 

Il senso

ove questi

s’era perso

 

Trasmigrazione

dell'anima

in più ampio

universo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

V

Finestra

aperta

a nuovo giorno

disperde

il vecchio odore

di stantio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VI

Vorrei che tutto

intorno

diventasse cristallo

per frantumarlo

con il grido

della mia anima

 

E far l’amore

sui cocci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VII

Ho bevuto

d'un fiato

la luce del giorno

fino a sera

 

Ho fustigato

d'insonnia

una notte troppo lenta

dura

a sfumare nell’alba

 

Ho violentato

d'indifferenza

i volti del giorno dopo

carosello d’ignoti

 

Ho spento

inutile

lo sguardo

 

tu

non c’eri

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VIII

Perle

d'inesausto profumo

evaporate

respirate

raccolte e disperse

nell’ultimo brivido

atteso

 

Sopite forme

di seta nuda

nel buio che dirada

e l’aurora che scruta

arrossendo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IX

A piccoli sorsi

dosato

bevuto

gustato

cercato

sperato

veleno

che amaro

le viscere

stolte

d’acuto dolore

divora

dilania

corrompe

inutile scotto

dileggio

d’amore alla gogna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

X  (Labirinto)

Vince

chi perde

 

Io

non voglio perdere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XI

Raccolgo

grappoli di parole

dai tralci dell’egoismo

per il trionfo della vanità

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XII

Chiedi alla terra

di scuotersi

fin nelle viscere

e ingiuria

con la tua ira

il tuo borbottio

imbecille

 

Insegna

all'universo

come si muore

da uomini

odiando

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIII

Sbuffa

sbatti

sberleffo

è il tuo amore

 

e mentre sbolle

la tua ira

di femmina

ascolta

il cigolio del tuo letto

come il pianto

d’una civetta

sul tuo davanzale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIV

Fiume in piena

il sesso

straripa

e annaspa la ragione

nel violento naufragio

dei sensi

 

Poi resti sola

sotto infertile limo

al ritrarsi

dell’onda

che onta

non sia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XV

Se fossimo stati amanti da sempre

t'avrei dispersa nel vento di primavera

tra i ronzii diseguali

che impollinano i peschi

e raccolta ogni estate

per morderti

e succhiare nuova linfa

con rinnovata sete di frescura

 

Se fossimo stati amanti

avrei sepolto nel tuo ventre

ogni energia vitale

sciogliendomi nelle tue vene

per possederti dentro

e percorrerti tutta

negli umori vitali

nei pensieri lontani

 

Se fossimo stati

ci saremmo bruciati nel fuoco

dell’inferno

che è desiderio eterno

che è passione mai doma

che è possesso violento

che è rabbia carnale

e piacere mortale

avrei lenito le mie ferite

in succhi di femmina avara

tra brividi folli

e membra contratte

aliti

rantoli

grida

 

Se fossimo…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XVI

Perdermi

nell'intrico

che vela appena

e totalmente svela

il capriccio di Venere

 

imbrattarmi

del tuo piacere

trasudato

anzi tempo

stordirmi

sul turgore

dei tuoi seni

eretti

mentre mi gridi

la tua voglia

mi percuoti

col tuo ventre

mi catturi

nel tuo sentire

 

Ritrovarmi

sulla tua pelle

che sa di donna

tra i seni

ansanti

da mordere

e lambire

con nuova voglia

 

Rubarti

come un ladro

a te stessa

e lasciarti vuota

involucro di te

smarrita

che chiede di sé

e si ritrova

quand’io

mi perdo ancora

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XVII

Nuvole

nere

di rabbia

il tuo cielo

si addensa

oscuro

maschera goffa

del sole

che c’è

tuttavia

 

Stracci

di nuvole

al vento

brandelli

d’un vecchio costume

di scena

che il sole

rismette

versati

gli ipocriti scrosci

di lacrime

consuete

 

Metafore

malacconce

tradiscono

il personaggio

e l’attore compare

dalle toppe

sdrucite

che cedono

a brani

a svelare

l’arcano

 

Chiudete il sipario!

 

Domani si recita

ancora

 

Nuvole nere

costumi di scena

metafore

sogni

illusioni

 

Fuori l’autore!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XVIII

Un seme

è un seme

destinato a cadere

semplicemente

dal fiore

o dal cielo

escremento d’uccello

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIX

A che

uno che chiede

quando c’è

uno che prende?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XX

Io

ti respiro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXI

Nulla ho chiesto

alla natura

e sono nato

 

Nulla ho chiesto

alla vita

e pure vivo

 

Nulla ho chiesto

all’amore

e mi ha toccato

 

A te chiedo

catene

per un uomo libero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXII

Ho ripescato

nei ricordi

dell’adolescenza

i misteri dell’amore

perduto

e le pene

le insonnie

i furori

per disperderli

incauto

nelle tue mani

bucate

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIII

Crisalide assopita

nel buio groviglio

del tuo tessere

imprudente

 

fuga l’indolenza

del tuo sonno

pigro

 

scaccia

la pletora dei fantasmi

galleggianti

nello spazio vuoto

delle tue finzioni

 

La seta

tessuta per altri

è il filo

reciso

della tua vita

di farfalla

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIV

Giorni come pagine

uguali

con la voce

con il corpo

scritte

e con lo sguardo

e con i segni

 

Fiori sul tuo vestito

per un desiderio da uccidere

e un segnalibro

per una pagina

vuota

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXV

Scorre

il fiume di femminilità

e ti scivola sui fianchi

e spumeggia

in cascate di sesso

che riempiono l’aria

 

Respiro

aromi da brivido

sulla pelle di seta

e cresce la voglia

come un demone folle

che danza

lascivo

al roco affannoso pulsare

del cuore

 

Smeraldi

sui faggi montani

trasudano invidia

per il verde

di te

rotondo

e i rovi

dalle more acerbe

sfumano nei tuoi occhi

che irridono

gli attacchi d’amore

 

Gocce di cielo

tra i rami

e tra le felci

giochi di ritrosia

a rincorrere

inutili

tempo e sospiri

 

Fra le tue dita

di giocoliere

vaga il fantasma

della mia felicità

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXVI

Silenzi

affilati e taglienti

giocano

tra le nostre dita

che s’incrociano alterne

e distratte

nell’inquietudine

dell’ultima giovinezza

che traspira

dalla pelle infuocata

vanificandosi

nella calura estiva

 

Voglia e tramonto

si perdono

oltre la montagna

per un’altra notte

vuota

 

Giochi d’ombre

e di umore

e di parole di senso forzato

giochi d’affetti

nuovi e verdi come le foglie

ma non caduchi

seni a piene mani

che rubano il sonno

spire d’asfalto

luci di città

che piovono malinconie

di prima sera

a rinverdire

l’ultima menzogna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXVII

Profumi notturni

riempiono

respiri lunari

nello stormire

di tremuli silenzi

 

Sull’orme del tempo

si adagia

rugiada di donna

che rinfresca

come canto studentesco

vibrato e raccolto

nell’unisono dell’adolescenza

 

La notte fibrilla

nell'ultimo velo di tenebra

lacerato e dissolto

dal canto

del primo usignolo

che modula il verso

sul grido

dei nostri fantasmi

in fuga

 

Langue nell’alba

l'incertezza

del giorno che cresce

a smentire

il tuo Io

frettolosamente celato

in logori brandelli

di infanzia

negata

 

Così paghi

non paga

il prezzo di abbandoni

caduchi

monumenti alla memoria

che è senza tempo

ormai

e senza volto

 

Solo toni d’ambra

rotondi

e il presente di noi

(di te se vuoi)

ardono vita

 

Il tempo era già prima

e non perdona

Non amarlo perciò

Bevine l’anima

E sii

purché tu sia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXVIII

Riccioli di vapore

sottili acrobati mattutini

deridono

esile

la porcellana

in cui ristagna

l’ultimo cerchio

di caffè amaro

 

Riccioli rosso fuoco

sublimano

l’aroma dell’ultima goccia

bevuta

sulla tua bocca

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXIX

Vagola il desiderio

sulle forme intriganti

come i venti d’autunno

tra le valli

ansiose di pioggia

a scompigliare

tra i rami pudichi

le già inutili foglie

 

Sfuggono tra le dita       

aromi evaporati

fra pieghe sofferte

di seta arancio

come arcate claustrali

sui giardini dell’eros

 

Stilla il sudore

d'Afrodite

quasi nettare

da un fiore maturo

fra l’elitre vibranti

e sottili

come calze di seta

onde si esalta

il demone folle

che spinge alla tua porta

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXX

Ho le palme ferite

dal tuo sentire

ma è l’anima

che sanguina

poi che disdice

all’essersi

non aversi in uno

 

Già si disegna

nelle cose

i tratti del volere

e pure sfuma

nella ritrosia

l’ultimo segno

che sublima la carne

 

Freme

nello steccato della ragione

il sé cattivo

ostaggio dell’immaginario

che falsifica il gioco

irreale

ed assurdo

tra due sconfitti

 

Sulle guglie

della nostra cattedrale

di carta

sbiadiranno

le ultime parole

altre la tua memoria

distratta

perderà per via

 

E le mie palme ferite

dall'averti sentita

recideranno ancora

sui prati d’occidente

i turgidi steli

odorosi

dei fiori del ricordo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXI

Si sgranano in chicchi

le nuvole gonfie

ormeggiate

sui vecchi tetti

di cotto raffermo

 

Risuona il ticchettio

rimbalzante

a ritmare gli inverni

dai primordi

 

Beve la terra

ristoro

dai grani disciolti

mentr’io sui petali

bevo

della tua bocca

un altro sorriso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXII

Ascolto il canto

delle sirene

e la mia chiglia

morde gli scogli

tra la bava dei marosi

ch’altri solleva

e me sommerge

prossimo all’approdo

 

Vane le mani

artigliano

aliti di brezza

gli occhi sgranano perle

da sorrisi nolenti

erto il timone

regge

inutile la rotta

cede ai velacci

l’albero di prua

 

La mia nave

delusa

a brano a brano

cerca l’abisso

fino all’ultimo legno

 

Sui flutti l’eco

delle sirene

galleggiante deride

un polena

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXIII

Correva

tra il rigoglio delle eriche

come trine reggenti

il seno lussureggiante

delle mie colline

d’estate

il desiderio

 

Un diluvio di sole

tiranneggiava

la natura già esplosa

nei suoi colori

in festa

come la mia voglia

 

Rabbioso

digrignava il motore

sbigottendo

trasecolate spirali

di strada montana

 

Trasalivano

sciami di vetture

pigre

che arroventavano il meriggio

appena trascorso

 

Cessò di sobbalzare

il petto

trafitto da uno strale

di ghiaccio

davanti al Grand Hotel

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXIV

… e a me non nascondi

la tua coscienza

stuprata

quale vaso di Pandora

che vomiti sentimenti

dai contorni bizzarri

e diseguali

come ombre in corsa

e tradisce

capricciose metamorfosi

nel cielo dell’estemporaneo

 

Né ti parla

il confuso sgomento

nelle nebbie immobili

dell’illusione

come un muro molle

che l’essere

disgiunge

e l’apparire

 

Senza voglia

soccombi

ad un furore cieco

che presta l’anima ai sensi

e poi scompare

oltre l’orizzonte

dei tuoi ritagli di tempo

come effimero atollo

che l’ultima eruzione

affondi

 

… e a me non nascondi

che l’estasi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXV

Mi darai l’ultimo lembo di pelle

quello che mai nessuno

avrà baciato

perché mi sia fardello

nell’ultimo viaggio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXXVI   (Scarabeo)

Tenero scarabeo

dolce

fra le trine preziose

traboccanti del tuo respiro

 

piccolo scarabeo

felice

ubriaco di piacere

 

morbida perla

 

neo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XXVII

Candido

appena mosso

mare

 

onde lievi

e penduli ricami

 

i tuoi fiordi adagiati

 

e la mia nave

ne lambisce le rive

finché la stella

della notte

brilli

 

e le dia porto

 

si che lievi sogni

amabili sconcerti

ne trastullino i fianchi

tra lieto sciabordio

 

eco leggera

di piccoli baci

deposti

sulla tua pelle

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizio sezione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEMORIE

 

 

PRELUDI

IAM ADOLEVI

MEMORIE

COMMEDIA

ORME

UOMINI

 

 

 

 

 

“… nel senso di morte,

eccomi, spaventato d’amore.”

(S. Quasimodo)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MEMORIE

 

Abbiamo udito le stelle

cantare

sotto l’abside della notte

 

Abbiamo visto gli alberi

danzare

agitando le chiome

nel tempo degli amori

 

Abbiamo frugato

le mani zelanti

tra accesi pallori

al chiarore lunare

 

Abbiamo visto il tempo

rubarci

la gaiezza

ed il sole

ingiallire

il verde dell’età

 

Abbiam visto morire

i nostri vecchi

e non solo…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE VOCI

 

Tutte

le sento

le voci

dei silenzi antichi

messaggere di malinconia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NOI ERAVAMO

 

Noi eravamo

e quel che siamo

è per sempre

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRANCA

 

Fu causa

il quotidiano dirimpetto

ammiccato

tra pregressi ablativi

o fu ragione

la fragranza lieve

dell’adolescenza

che impregnava di sé

ogni respiro?

 

Fu forza

il singolare incedere

o blandizia

i sussurri vocali

o legame

l’intreccio delle mani

o delizia

il sapore delle labbra?

 

Per certo fu sgomento

il sospetto

e fu più breve

il sonno

ed il distacco

fi disperazione

 

Era già amore

e poi anch’esso

fu

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EPPURE AVREI POTUTO

 

Eppure avrei potuto

non bagnare di pianto

gli scoscesi scalini

e consunti

di pietra grigia

erta furtiva

che la piccola piazza

giungeva

con il mio paradiso

 

Lieve memoria

cattura ancora

nei recessi del sogno

le tue mani

e per esse l’amore

fatto carezze

e i seni nudi

dal profumo dolce

d’infinito

e te da bere

fino all’ultima goccia

e la tua bocca

gelosa delle mie parole

e il vento

che non scompone

l’ordito in fiore

dello scarno divano

caldo di noi

 

Sulle rive

del grande fiume

in cui trapassa il tempo

frettolosa muore

l’eco dei gorghi

del passato

e se antichi profumi

scuotono

il senno incanutito

è crudele illusione

è miraggio

nel sole del tramonto

 

L’ombre lunghe

della sera

non raggiungono te

sull’altra sponda

Più non sento il tuo nome

E non vedo il tuo volto

Né comprendo il tuo grido

(o il grido è mio?)

 

… ma è tardi …

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A TUO PADRE

 

Le mie incertezze

cantavano

liturgie di primo altare

ai tuoi idoli pagani

insuperbiti

dalla loro sacralità

rotonda

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL TEMPO E IL RICORDO

 

L’alito del tempo

sulle dune sabbiose

soffia

del mare del ricordo

e i grani sottili

ne mesta

turbinanti ed inquieti

 

Né le dita

discernono

attimi cristallizzati

che sfuggono dal palmo

per grave destino

d’oblio

 

Poche

le rocce immobili

e salde

dagli acumi non deflati

che il pensiero

feriscono

abbarbicato e dolente

tormentato dagli urli

da cui mai fu tradito

 

Ne riverberi l’eco

il dio della memoria

oltre l’ultima notte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CENERE

 

Mille fuochi

divampino insieme

e mille soli

ardano

la pietraia delle lusinghe

ove m’aggiro

assetato

io cercherò

fra le ceneri

d’un fuoco spento

la scintilla che mi bruci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PIAZZA NAVONA

 

Piazza Navona

languida carezza barocca

sui segni cicatriziali

di giovanili armonie

 

proscenio gorgogliante

sussurri plastici

di pietra

drammaticamente inanimata

che antico sagrato

ottunde

nel silenzio greve

di deserta penombra

nella grande navata

solenne inferno

di memore spergiuro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RITORNO

 

Intricate trame di voli

tessono nuova stagione

sui tegoli assolati

quasi vela impalpabile

che lo zefiro gonfia

sull’albero maestro

dai vecchi bronzi cavi

che a me parlavano dolce

giovanile linguaggio

 

Case dai grandi occhi rifatti

lieto sorprendo a curiosare

sui miei passi deserti

sommersi da voci amiche

non la tua

amata

 

Sotto i cocenti tegoli riverso

il vecchio liuto

risuona d’altro canto

e d’altre note

che affrangono d’estraneità

ed io bevo il mio pensiero

disciolto in un vecchio concerto

in bianco e nero

che risuona elemosiniere errante

tra vicoli sconnessi

usci dolorosamente serrati

come scrigni vuoti

e volti stanchi d’antiche allegrie

 

Così la vita m’attraversa

fino all’ultimo fiato

che non so dedicarti

per amore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA MIA VEGLIA È BREVE

 

Insolente memoria

mi percuote sul cuore

con sferza d’antichi crini

olenti di giovinezza

si che strazio e vita

m’irrorino dolente

 

Poca luce in residui palpiti

promette ormai la mia lampada

e la mia veglia è breve

come intensa la pena

che mi spezza le notti

 

Sul tuo ricordo

poserò la fronte

per l’ultimo sonno

si che il sognarti

non mi sia tormento

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

VECCHIA SAN PIETRO

 

Vecchia San Pietro

 

serto

di fiori eterni

e d’affetti

cinto

da memore canizie

di chi t’amò

per tutto

 

t’offro il mio desiderio

d’antiche nenie

notturne

di voci ora stanche

e la malinconia

celata nei sorrisi

dell’età

che con lei condivido

e con amici

onde memoria s’allegra

 

E tu ruba

vecchia ladra di sogni

al tempo

il suo segreto

e in un bisbiglio

parlami d’amore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ECHI

 

I ricordi

si aprono ogni estate

vividi

come i fiori dell’ibisco

che straripano

dalla cinta muraria

per salutare la risacca

 

Segni

sulla battigia

d’un vecchio alfabeto

antiche parole

senza più eco

che la spuma non dissolve

 

Pensieri

come capriole

dietro l’arcobaleno

della memoria

su cui tintinnano

invano

cristalli di lacrime

sprecate da tempo

e profanano il cuore

geloso sudario

ingiallito

di amori perduti

 

Echi

tra le rughe del tempo

come foglie vizze

in balia di pacati furori

autunnali

vagheggiano suoni

d’altre primavere

e la lussuria delusa

dei frutti non colti

 

Nell’orgia dei rimpianti

non c’è balsamo

per ferite

di vecchio guerriero

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CUORE LACERO

 

Vecchio è il cuore

che veste i panni laceri

della malinconia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUOTIDIE

 

Liba con me

tra le pareti

di cotanto tempio

sacerdotessa

e vittima prostrata

sul tepore

d’un soffice altare

di piume

 

Leva il tuo canto

estatico

che ritmi

la frenetica danza

dei tuoi lombi

nella calda penombra

 

Fremi nella follia

d'antico rito

E nei sospiri

singhiozzati

con felina voce

nel delirio dello spasimo

invoca

il dio che ti possiede

e a lui domanda

il dono dell’eternità

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL TUO NOME

 

Smarrito

m'avvidi di gridare

il tuo nome

Il vento lo colse

cullandolo

sull’alte

degli alberi

come flessuose

E vaga ancora

nelle notti chiare

l’eco d’una voce

che si spegne

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

M. T.

 

Rugiada

lacrime di cielo

sui morbidi petali

dei fiori

che per te recido

 

diafano

pianto notturno

che al sole sfavilla

perdendosi

fioco

nella luce dei tuoi occhi

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

M.

 

Fra cieli sereni

e nubi

grevi di pioggia

la prima stagione

ritorna

la terra coprendo

d’armonici screzi

di verde

 

Rinasce con essa

nuova forza

di vivere

e desiderio d’amare

acceso dalla gioia

d’un incontro

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ANGELA

 

Non attardare

Angela

lo sguardo

sui tristi festoni

del giorno dopo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A MARIA

 

Sorridi Maria

è alba di vita

gorgoglìo di sorgente

soffio di brezza

timido passo

fiore che sboccia

vagito di bimbo

 

Ridi

è giorno di gioia

festa di luci

grida di fanciulli

crepitio di galoppo

fischio di vento

scroscio di mare in burrasca

urlo di tempesta

boato di terra che trema

 

Sorridi ancora

quando il sole al tramonto

arrosserà il mio volto

e farà crepitare

per l’ultima volta

la fiamma dei ricordi

 

Né lacrime darai

al calice delle tue notti

fredde

se mano solitaria

poserà stanca

su vecchio lenzuolo

che fu alba di vita

gorgoglìo di sorgente

soffio di brezza

timido passo

fiore che sboccia

vagito di bimbo…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8 MARZO

 

Quando nacque la donna

l'Universo ebbe un brivido

nella schiena

 

Vibrò d’energia il sole

e la sua luce

la terra inondò

ché la notte non velasse

nuova zolla di cosmo

 

Femmina

Fecondità

Furore

Fuoco

Fascino

Forza

Fantasia

Fattezze

Ferita aperta nell’umanità

che gronda vita

nuova ed inattesa

come favola incompiuta

che il mondo si racconta

da sempre

in un atto di fede

da essere recitato

per essere trasgredito

 

Donna è …

suono da sentire

con l’anima

immagine da vedere

con le mani

aria da respirare

coi sensi

fiore da cogliere

più volte

ultima frase

dell’armonia creativa

prologo

ed epilogo

vita

e non vita

fatica

e ristoro

amore

e odio

condanna

e perdono

mezzo

 e fine

 

Quando nacque la donna

l'Universo ebbe un brivido

nella schiena

e con esso

l’uomo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’INVENTORE

 

L’inventore dell’amore

inciampò

sull’orlo del pozzo

dell’odio

e…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE DONNE CHE CONOSCO

 

Le donne che conosco

allevano solo animali di lusso

Guinzagli dorati

Trespoli d’argento

Canti stagionali

Gabbie senza porta

per le donne che io conosco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUANDO È TEMPO

 

Quando è tempo

di perdere tempo

ella s’innamora

e  batte le palpebre

come l’ali di un fringuello

e scuote l’ugola

come le foglie argentee

dei pioppi

nella brezza estiva

a liberare il canto

della natura in festa

 

Quando è tempo

di perdere tempo

egli sonnecchia

sulle prime

e si lascia cullare

dalla canzone

e dal vento

e la sua forza si fa cosa

 

L’antico arciere

incocca la sua freccia

Vibra come la corda

tesa

la sua carne

 

Poi la natura

si fa profumo

e si coniuga in uno

e s’inghirlanda

e intreccia fili di seta bruna

e il canto si fa coro

e si confonde

tra le bocche ansanti

e tace

…quando è tempo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PARADOSSO

 

Dai lembi lacerati

di ferita d’amore

sanguina

tra mille sofferenze

felici

il paradosso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ESTATE

 

Schiocca

sotto la ghiaia

a riva

l’estate

calpestata dal legno

indiscreto

degli zoccoli

 

schiuma

la risacca ciarliera

che ripete a blandire

dolcemente acclivi

morbidi tappeti

di sabbia fine

 

si azzurrano

sogni ad occhi aperti

come sagome all’orizzonte

e il mio cuore

si tuffa

con lo sciacquio

lieve

d’un piccolo sasso

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

ROTAIE

 

Binari

eternamente distanti

per le ruote

vorticose

di questo amore

sdrucciolo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SOTTO IL GRIDO DEI FALCHI

 

Non una voce

non una parola

mani di borsaiolo

agili le dita

ti riscoprono

viva

sotto il grido dei falchi

appesi

ai raggi del primo sole

sui dossi collinari

verde giaciglio

del tuo desiderio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

METEORA

 

Stella cadente

sul vecchio mulino

rasoiata di luce

che taglia

per un attimo

la cupola trapunta

d’una notte d’agosto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL PIANTO DI UN PIANOFORTE

 

Gocce

di profondo dolore

imperlano

i tasti di un pianoforte

che sparge lontano

nella notte

la sua musica

intrisa di pianto

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizio sezione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

COMMEDIA

 

 

PRELUDI

IAM ADOLEVI

MEMORIE

COMMEDIA

ORME

UOMINI

 

 

 

 

 

“Odi et amo. Quare id faciam, fortasse requiris.

Nescio, sed fieri sentio et excrucior”.

(Catullo)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Lunedì

 

Il saltimbanco dell’amore

si desta esausto

al mattino

 

Ripone

la coda di pavone

nel suo armadio

tarlato

da vermi ubriachi

 

Sciorina spoglie

di trina

per asciugare l’inchiostro

del suo diario

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Martedì

 

L’anonima comparsa

indossa

l’illustre doppio mento

mollemente rasato

cui l’adipe fa torto

e la gola virtù

 

Ignobile inquilino

di letto coniugale

dagli odori stanchi

annega

nel brodo freddo

del suo quotidiano

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Mercoledì

 

L’animale sociale

addobba la vetrina

per dar mostra di sé

 

Vagheggia in prima pagina

il sesso clandestino

di cui fu pasto

e ne sottende le lodi

da gentiluomo finto

 

Non regge il gioco

se la “signora”

s’ignora

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giovedì

 

Affina il capocomico

la battuta d’effetto

nasale

come da copione

 

Conosce il ruolo

della primadonna

uguale

come le pieghe

della sua nudità

tremula

malamente coperta

di finti pudori

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Venerdì

 

Canta stornelli al focolare

l'usignolo accecato

a coda di pavone

 

Blandisce

gli orli sdruciti

della sua coscienza

rivoltandola

nell’usuale talamo

appena intiepidito

da frettoloso calore

inappagato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Sabato

 

Il prim’attore in sala trucco

seppellisce

in un vaso di cerone

i fili del suo burattino

domestico

 

Cede al travestimento

e s’impiuma

il servaggio profondo

 

Cinge la spada

 

Smette il bastone molle

da clown bene

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Domenica

 

Farnetica a soggetto

l'amatore di giornata

 

Sventola come un mantello

il suo ventre pendulo

che gli occulta l’elsa

della spada greve

 

Incespica sul baratro

d'un proscenio irridente

e all’urlo di lei

per avventura

l’arma gli cade

nella buca del suggeritore

 

Ed è commedia

 

 

 

 

 

 

 

 

Inizio sezione

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 ORME

 

 

PRELUDI

IAM ADOLEVI

MEMORIE

COMMEDIA

ORME

UOMINI

 

 

 

 

 

“Mi desto in un bagno

di care cose consuete

sorpreso

e raddolcito”

(G. Ungaretti)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IDA

 

Presto cadranno le foglie

amore mio

ed il mio passo

scricchiolerà

sui viali ingialliti

 

Io non sarò chiamato

a respirare

aure celesti

e brezze supreme

tra chiome d’argento

 

berrò sfinito

impenetrabili cieli

di piombo fuso

in fredde coppe di terra

come i mortali

 

Alla memoria

cui è nemico il tempo

sarà calice d’oro

il tuo compianto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MADRE

 

Ruota la Terra

madre di sua madre

nel misterioso immenso

piccola sfera

e grande

per l’umanità

che tutta la significa

 

Eppure ancora

la guardo

con gli occhi dell’infanzia

rivolti al seno

che mi nutrì

sazio d’affetti

per cui mia madre

è madre della Terra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FELICITÀ

 

Frutto mai nato

Fiore non dischiuso

di sterile pianta

Ombra di un’ombra

Luce d’un cieco

Ibrido incesto

di illusioni e speranze

Vana promessa

dell'uomo a se stesso

Miraggio

mai apparso

nel caotico deserto

dell’esistenza

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A IDA

 

Né canterai la vita

senza pensare alla morte

né canterai l’amore

dannata

ad evadere dall’oggi

per arditi salti nel buio

 

D’uomini senza presente

si falsifica la storia

 

Tra memoria

e speranza

la vita è un breve nulla

che la memoria uccide

e la speranza aborte

 

Così le strade

non la strada

s’apriranno grandi

di loro incertezze

e belle

fino all’ultima luce

che non ha distanza

né luogo

 

Sulle tue gambe giovani

anch'io per ciò cammino

e vorrei la tua meta

 

Ma ti sarò più lieve

come ricordo

 

E me darai com’esca

ai fiabeschi mostri

delle tue storie

e me com’arma

 

E nel dolore

di cui pasce l’umano

per non umana perfidia

partecipa

d’una sola goccia

di pianto

una scheggia della mia pietra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’OMBRA

 

Ombra

eclisse sacrilega

forma senz’anima

sagoma menzognera

premeditata

a rinnegar la luce

che pur la crea

 

Non conosce la notte

poiché la nega il buio

come l’eterno l’uomo

che soffre il sole

in vece sua

e il vento

e l’incalzare del tempo

e degli eventi

 

Infida e strisciante

è irriverente

come un giullare deforme

che ingiuria

il suo sovrano impotente

e ne dissacra l’imperio

ch’essa non ha

e non espia

 

Cade sulla sua ombra

il guerriero abbattuto

e di sangue la intride

Dell’ombra si lusinga

il non cresciuto

al tramonto

ed all’alba

All’ombra del potente

immiserisce

il vile

il cuore dilaniato

dal rancore

E l’ombra dell’amato

è refrigerio

al cuore in pena

poiché l’amore vive

di superbe menzogne

Nell’ombra di se stesso

si racchiude

stanco

l’uomo al traguardo

come un vecchio atleta

che rimette ad altri

il testimone…

…e l’ombra

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA MORTE

 

Notte

d'un lungo giorno

di tormenti

Epilogo funereo

d'una storia

fra tante

Gelido soffio

che il sole spegne

quand’esso più splende

Tenero dramma

che cade

inesorabile

alle prime battute

sulla scena del mondo

Temuta attesa

della saggia canizie

ammanta tutto

nel velo della notte

 

Ma dopo

verrà l’alba?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL DOLORE

 

Il dolore

non è nelle lacrime

poiché si piange

anche di gioia

 

non è nel lamento

poiché questo è dei deboli

 

non è nella luce

poiché la luce

è viva

calda

luminosa

sfolgorante

gaia

 

Il dolore è nel buio

è nel silenzio

è nell’aria fredda

della notte

e lo respiro in solitudine

perché io solo

possa goderne

e soffrirne

 

Il dolore è mio

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA MIA PENNA

 

Oceano fluttuante

di suoni

repressi a fatica

dall’animo

erompono violenti

i miei pensieri

 

Tace la lingua

pensieri sublimi

parole

che mai labbro umano

profuse

se il volto

vergato non fosse

di tenere lacrime

 

Rettangoli bianchi

di carta

fruscianti

attendono ansiosi

che parli loro

per me

la mia penna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

MIO PADRE

 

Ho smesso

la livrea

della verdità

per baciare mio padre

sul suo letto

di morte

 

È sparita

nell'abisso

dell’ultima ruga

la levità

dell’estrema carezza

dal tepore

stanco

 

Ora

ho voglia

di soffrire

ma è

poca cosa

l’affanno dell’essere

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PIETRO

 

Sul vecchio assito

verde prateria

scalciava la tua sedia

al galoppo

e il suo nitrito

gonfiava d’allegria

il tuo cuore

di cristallo

fragile

come la tua infanzia

 

Poi il sole si spense

sull'ultimo schiocco di frusta

a raggelare l’ultimo nitrito

della vecchia seggiola

orfana

dei tuoi riccioli di miele

 

Vagava ancora

l'eco dei tuoi concerti

inni alla mestizia

d’ignota legge

ingiusta

quanto vana

che volle serrati

gli occhi tuoi

quanto sbarrati i miei

nello stupore

lo smarrimento

la disperazione

 

Mi offrii

sulle ginocchia di tua madre

vano ostaggio

e crudele

al suo esserti morta

 

Forse piansi

forse …no

 

Ma che importa?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

CREAZIONE

 

La costola divelta

trasfigurò

tradendo il sonno

dell’ignaro

 

Esplose

nel turgore dei suoi frutti

adulti

l’albero della carne

e il giardino fiorì

 

Sciolse il suo grido

la paradisea

ed il rettile infido

le sue spire

 

L’uomo

sciolse il suo cuore

 

Versò il suo sangue

il sole al tramonto

austero e distante

come un fuoco sacro

 

Nelle pieghe della notte

Dio

ingravidò la natura

e concepì il dolore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA MELA

 

Le nostre libertà

le voci eterne

nei pomi imprigionate

dell’Eden

da primaria follia

 

e le nostre vaghezze

onde hanno senso

le stagioni

e la vita

e il suo non essere più

 

e la scienza

che coglie il sentimento

e dà nome ai profumi

e penetra le cose

il mistero erodendo

fino alla soglia dell’Amore

 

tutto

 

con un brivido esplose

al primo morso

tra due labbra di donna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INCOMINCIARE A VIVERE

 

Alla sera del settimo giorno

Jahvè

si ricordò del giorno avanti

e conobbe l’ansia

del lunedì

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FRUTTI ACERBI

 

Un po’ tutti

cogliemmo frutti acerbi

ma noi

non siamo Dio!

 

 

 

 

 

 

 

 

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UOMINI

 

 

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UOMINI

 

 

 

 

 

“Scimmie umane cadute dalla vulva materna,

la nostra ragione opaca ci cela l’infinito!”

(A.  Rimbaud)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

INFANZIA

 

Lucciole

d'eterna primavera

brillano

palpitanti d’ansia

immortali

gli occhi dell’infanzia

primi chiarori

d’irrequiete aurore

vocianti

sul dorso cieco

del chissà

 

Molecole d’eterno

pensiero

da pensiero

svelano il dopo

e il sempre

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GIOVANI

 

Semidei ubriachi

di gaiezza

gli aurei crateri protesi

alle fonti del tempo

ambrosia evanescente

antidoto

per illusoria deità

che sa d’umano

quanto l’uomo

e l’amore

e la morte

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LE MANI SUL MONDO

 

Imporre

le mani sul mondo

e sentire

la musica dell’uomo

vibrare

sotto le palme

e percepire il fuoco

dell’amore

e dell’odio

 

Respirare

profumo d’umanità

che sa di sesso

e di polvere da sparo

che l’incenso non copre

 

Soffrire

tra l’indifferenza

il freddo

della morte per indifferenza

 

Ritrarre deluse

le mani

da un mondo troppo piccolo

per nascondere l’uomo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’UNIVERSO

 

Dai davanzali del cielo

l'Universo

s’affaccia

le umane amenità

contemplando

e le disumane barbarie

atroci colori

e tenaci

del nostro orbitare

 

Sull’uomo si addensa

ancestrale

fiabesca onirica bufera

di mature infanzie spaurite

che lascivie d’arcangeli

asessuati

cui fu destino

libidine di luce

e prevalenza

sconcerta

 

Tra cherubini

dalle gote gonfie

sulle trombe di guerra

vibrano le antere

della Grande Corolla

ermafrodita

che si autofeconda

a perpetuare il Mostro

 

Dai davanzali del cielo

contempla l’Universo

il senso morale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

FALCONE

 

Si interrompe la strada

a mezzogiorno

si sbriciola in frantumi

di cristallo

il tuo essere giusto

e più non è

la tua voglia di utopia

 

Gronda il tuo paradiso

di sangue giovane

non ancora rappreso

che scorre

come lava del Mongibello

che tutto trascina

ed incendia

fuor che cuori di Sicilia

 

Aliti immondi

impastano parole

senza senno

fuor da bocche cucite

e visi senza volto

 

Grida indistinte

profanano il silenzio

d’una toga

vuota

prostrata a contemplare

l’estremo abbraccio

tricolore

 

Ciò che è stato

è Stato

ed a tacere

siamo tutti Capaci

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GRIGIO

 

Sia grazia

il bacio della terza Parca

al filo

d’una vita senza accenti

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

AUTO BLU

 

Auto blu

Corteo infame

Volti coperti

Fiori di sangue

per l’onore d’Italia

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

POLITICA DI PERIFERIA

 

Ridonda di inutile

la magica sfera

dell’incolto

nell’orbita contorta

dell’universo finito

del pattume

sociale

 

Sfuma il non senso

nella ruota eccentrica

del sussiego

dalle mani adunche

sorrette dal digrigno

della fame

per avidità

 

Più non lasciano traccia

antiche probità

centrifugate

con dolosa foga

e malamente affisse

sui muri della storia

 

Il delitto fa scuola

e malaccorta genia

d’apprendisti

ne divulga dottrina

 

Ma

seme d’uomo

sa diffondere il tempo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

IL RAMPANTE

 

Sui roghi

della pubblica opinione

brucia

incatenato al potere

“l’apprendista stregone”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

QUESTIONE MORALE

 

Deputati

sputati in Parlamento

dalle coscienze

pigre

di elettori distratti

volteggiano

destri funamboli

danzanti

sulla schiena molle

dell’agnosia

come fauna circense

di malfidata lana

cui fa d’uopo la gabbia

dopo l’emiciclo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’ASSESSORE

 

Useremo

riverite penne

di tacchino

intinte d’inchiostro

incolore

per risparmiare ai posteri

secchiate di stilemi

storpi

dai suoni casuali

evanescenti oscenità

verbali

di senso raro

involontaria satira

di sé

 

Da poco

tanto niente

conferma nullità

che pur si svela

nel suo essersi tutto

tra effluvi

di lubrica vanità

contraccettiva

 

Stupisce

la Fortuna inerme

 

Corre

verso il futuro

sulla sua ruota

di tacchino

l’Assessore

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

PER UN MALVAGIO

 

Vomito

d'istero incontinente

che tradisca

lo sputo casuale

d’abitudinaria verga

analfabeta

 

è già cancro

in metastasi

nella città che soffre

di vergogna

 

 

 

 

 

 

 

 

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Finito di stampare il 16 settembre 1993