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La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente |
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27 novembre 2017 Conoscere: un imperativo perenne Quando avverrà che la gente, tutta la gente, farà amicizia con
la conoscenza? Conoscere non vuol dire soltanto entrare in contatto e
recepire i dati di quella che comunemente si definisce “cultura”, che nel
gergo quotidiano, nel comune sentire, viene identificata con l’istruzione, il
sapere, che sia aulico o meno elevato. Conoscere, mi piace pensare,
vorrebbe poter dire avere contezza, per testimonianza diretta o per riporto
attendibile, di quanto accade intorno a noi, nel territorio che si abita e di
cui si determinano gli eventi direttamente o indirettamente. Conoscere gli
uomini, quindi; interiorizzarne i ruoli, le funzioni, le responsabilità;
valutarne e giudicarne gli aspetti tangibili come il comportamento, la
dimensione sociale, le connessioni con i propri simili, il deprecato egoismo
e l’auspicabile altruismo, le cordiali ipocrisie e l’indifferente sincerità. Perché questa premessa? – ci si
potrebbe chiedere. Semplice! Mi è capitato sotto gli
occhi un vecchio libro di testo, fra i tanti che mi sono passati tra le mani
durante la mia più che quarantennale esperienza professionale, dal titolo
emblematico “Conoscere per capire”. Un istintivo moto di riflessione
si è impadronito della mia mente e, per associazione di idee, mi ha indotto a
formulare queste considerazioni pensando che, in fondo, la scuola (e,
pertanto me stesso, che nella fattispecie la rappresentavo) avrebbe potuto e
dovuto avere un ruolo meglio articolato per incidere, con più ampie
espansioni, nella futuribilità interiore dei soggetti educandi. Ma conoscere cosa per capire che cos’altro? Ecco
l’interrogativo pregnante! «Conoscere l’uomo» è la risposta.
Dal suo portato storico alla sua dimensione soggettiva. Eppure, spesso, ci si lascia
andare ad atteggiamenti di sonnolenza perniciosa. È come se il non voler
sapere fosse l’antidoto contro il veleno di un’attesa che non prevede ritorni
e che trova momentanei palliativi in furbesche pacche sulle spalle
dall’effetto narcotico, quasi “stupefacente”. È la metafora di un conto
perennemente aperto, di un credito virtuale che non troverà mai
soddisfazione, l’inconsapevole gestazione di un aborto predestinato. È il dominio delle parole sui
fatti, la prevalenza di ciò che appare su quello che è, la vittoria del
verosimile sulla verità, la prevaricazione dell’illusione sulla realtà. Il
prestidigitatore, si sa, incanta; ma nessuno può perdere di vista che si è di
fronte ad uno spettacolo che tende a confondere le menti. E sul palcoscenico del mondo gli
illusionisti non mancano perché abbondano gli ingenui che si stupiscono dei
falsi miracoli dietro i drappi mimetici dai colori appariscenti. Chi il
miracolo non vede ne ascolta il racconto, interiorizza il fascino
dell’occasionale cantastorie, ne metabolizza quasi fideisticamente la
dogmatica illusorietà, e si concede con faciloneria a chi sordidamente gli
ghermisce il pensiero. Conoscere profondamente è,
allora, l’imperativo! Affondare con disincanto la sonda della curiositas cognoscendi
nelle carni del genere umano. Osservare con occhio critico e asetticamente
acuto, ascoltare con orecchio limpido e libero distinguendo i suoni dai
rumori, affidare il cuore all’abbraccio della propria coscienza, aprire il
pensiero alla grandezza del mondo e non all’angustia della tribù. Animizzando un po’, immaginiamo per un solo attimo che queste riflessioni
siano un faro, un riflettore appunto, che indirizzi la propria luce intensa -
la “rifletta” sarebbe il caso di dire – su degli oggetti specifici, quali
potrebbero essere la politica, il governo del Paese, i governi regionali e
comunali, la scuola, la sanità, le banche, le professioni, il commercio, i
mestieri e così via. Sotto questa luce virtuale, che
induce ad uno sguardo profondo, questi “oggetti” si rivelerebbero diversi o
identici a come appaiono sotto un’occhiata superficiale e/o distratta? La risposta a questo
interrogativo ci ricondurrà a quello iniziale, tanto per chiudere il cerchio
e per ravvisare, probabilmente, l’esigenza (o almeno l’opportunità) di
instaurare uno stretto rapporto di amicizia con la conoscenza. Ricordate il poeta? «Fatti non foste a viver come bruti, ma
per seguir virtute e canoscenza.» Luigi Parrillo |
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