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9 luglio 2016

 Quasi novanta, ma non li dimostra

Io vi abito difronte e la mattina, quando appena sveglio apro le imposte della mia camera, la saluto, coscientemente o non, con la deferenza che impone il suo ruolo e l’affettuoso rispetto di chi le ha dedicato professionalmente gran parte dei propri anni migliori.

Essa è lì. «Sta – direbbe Dante – come torre ferma che non crolla giammai la cima per soffiar di venti.»

Ha quasi novant’anni e, nel bene e nel male, non era mai stata ingiuriata come in quest’ultimo periodo di tempo. Neanche le truppe tedesche, che verso la fine della seconda guerra mondiale vi si erano stanziate, le hanno mancato di rispetto, considerandola un presidio di cultura e di educazione, che andava preservato da ogni danno o da ogni benché minima ingiuria.

Solo gli sfaceli che il terzo millennio sta dedicando alla scuola italiana, un po’ per leggerezza, un po’ per incompetenza, un po’ per l’inveterato difetto del lasciar correre strettamente connesso al cancro della corruzione spicciola generalizzata, vorrebbero trascinare questa bella struttura, architettonica e non solo, verso il baratro della consunzione socio-culturale.

Un danno alla storia e uno sberleffo a quanti, tra queste pareti, con ruoli diversi, hanno pensato di dare risposta, obbedendo al dovere di cittadini consapevoli, alle istanze della società, mutevole per il mutare dei tempi, tentando di costruire se stessi per dare, attraverso il proprio volto e le proprie coscienze, un’immagine dignitosa alla terra che li ha visti nascere o che comunque li ha accolti nel proprio abbraccio.

Tra queste mura si è celebrato il rito dell’apprendere e dell’insegnare che lo determina. Qui i sammarchesi hanno imparato a leggere, a scrivere e a far di conto (come si diceva una volta). In questo tempio si sono consumate le energie di vecchi maestri e si sono temprate le conoscenze di allievi ancora grati e riconoscenti. Queste aule custodiscono gelosamente le memorie di infanzie più o meno spensierate stampate a fuoco nella canizie o nella calvizie di numerosi anziani, nostalgicamente felici per questo.

E l’insegnamento era considerato al pari del sacerdozio per profondità e per dignità, caratteristiche indossate con fierezza da docenti e dirigenti integri, solenni, esemplari.

Poi tutto incominciò a decolorarsi, a sfumare nei contorni, a sbiadire e a decaratterizzarsi. È come se la imposta semplificazione di taluni concetti di fondo dovesse necessariamente sfociare nel minimale becero. Come se la doverosa e auspicata crescita del valore della “persona” dovesse necessariamente ignorare e rigettare il rispetto per l’altro. Come se il diritto di affermarsi come “cittadino” dello Stato democratico potesse tranquillamente prescindere dai saperi e dalla conoscenza per rinchiudersi nel bozzolo angusto del proprio io, crisalide sospesa che mai diventerà farfalla, quand’anche ci si illuda di esserlo.

 E un tempio, per quanto proditoriamente ingiuriato, non potrà mai diventare pollaio, nonostante il piacere innato di allevare galline o l’esibizione di prepotenze immature che si illudono di poter emulare Attila. Chi, tuttavia, avesse letto qualche pagina fra storia e leggenda sa bene che persino il flagellum Dei, fatto qualche danno, dovette tristemente ripercorrere a ritroso la strada da cui era calato. Certo, ci vollero personalità forti e uomini decisi per raggiungere questo risultato.

Qui da noi, personalità forti e uomini decisi sono merce rara. Qui vige il concetto dell’obbedienza a capo chino, costi quello che costi. Il vezzo di subire gli eventi, più che determinarli, sembra essere una connotazione generale di questa comunità.

Tra sapere e ignorare, il secondo è più comodo ed è foriero di tranquillità, oltre che elisir di lunga vita. Eppure basterebbe molto poco per ricordare Fedro non solo per la favola abusata del lupo e dell’agnello, ma anche per quella, meno nota forse, della volpe e della maschera tragica, in un passaggio di grande effetto e dal significato inequivocabile in questi frangenti: «O quanta species» inquit «sed cerebrum non habet!»

Luigi Parrillo

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La volpe e la maschera tragica

 

 

Personam tragicam forte vulpes viderat. Cum illam huc et illuc, semel atque iterum vertisset, «O quanta species» inquit «sed cerebrum non habet!» Hoc illis dictum est quibus honorem et gloriam fortuna tribuit, sed sensum communem abstulit.

Una volpe aveva visto per caso una maschera tragica. Dopo averla girata da una parte e dall’altra una prima e una seconda volta, disse: «Oh, quanta bellezza, ma non ha cervello!» Questo è stato detto per quelli a cui la fortuna ha donato onore e gloria, ma ha tolto il senso comune.

 

 

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