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La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente |
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20 giugno 2016 Il destino di chiamarsi Virginia E così anche Roma, quasi
emula della nostra piccola e bizzarra cittadina, ha il primo sindaco donna di
nome Virginia. Immagino già l’imperversare della bufera di commenti, le cui
prime avvisaglie si erano già manifestate durante la campagna elettorale. Voi
chiamatele come volete: cattiverie, sospetti, ipotesi. Noi non ci addentriamo
in questo sport generalmente praticato da una certa categoria di politici
italiani. Fatto sta, però, che la pubblica opinione, non sempre smentita
dalla cosiddetta “stampa libera”, legittimamente o meno, immagina la povera
Virginia in balìa della “direzione” di un “direttorio”, a sua volta
condizionato e sottoposto alla “direzione” suprema di un’unica volontà
indiscussa e, per ciò stesso, prevaricante: quella del capo, dalla cui mente
è stata politicamente partorita prima, svezzata poi, quindi allevata, educata
e messa in campo. E si avrà un bel dire per sostenere che così non è. L’uso
abituale della “controfigura” (per usare un linguaggio cinematografico) o il ricorso
all’agnello sacrificale (in senso reale o metaforico), che da millenni viene
praticato per evitare noie o danni alle figure prevalenti nel contesto
sociale di appartenenza, non è mai tramontato. Ed in forme più o meno
evidenti, sia essa riconosciuta o smentita, è una pratica piuttosto frequente
nel mondo della politica, dell’amministrazione pubblica e non solo. Così, il confine tra la riconoscenza e la sottomissione si
confonde, si attenua fino a scomparire del tutto, e i due comparti mentali si
unificano fino a diventare una cosa sola, difficile da identificare e
definire. D’altronde, secondo gli esperti di onomastica, Virginia, nome
probabilmente di origine etrusca, avrebbe il significato di vergine destinata
al connubio, al matrimonio. Oggi, usando un comune barbarismo molto di moda,
diremmo eufemisticamente, e per opportuna trasposizione, che la persona cui è
stato imposto questo nome è destinata naturalmente ad una inevitabile iper-partnership. Il senso, poi, o la qualità e la estrinsecazione del connubio
e del rapporto riguarda le persone che lo intavolano e che lo vivono. Noi
siamo solo testimoni di certi fenomeni che, passando tranquillamente sulla
testa (o sulla schiena, se preferite) dei soggetti protagonisti, non è detto
che debbano necessariamente sfociare in fatti negativi o avere esiti nefasti.
Di sicuro c’è una sorta di farraginosità, un certo stridore
nei meccanismi complessi della personalità e dell’autonomia. Si immagini,
tanto per fare un esempio, una vettura che proceda con il freno a mano tirato
o con il riduttore elettronico di velocità inopportunamente inserito. Il pensiero non ha
bisogno di troppi passaggi. Il pensiero deve “volare” libero e rapido e tradursi
in azione senza troppe autorizzazioni. Va bene l’esame critico, la
discussione, il parere contrario, la pignoleria nei dettagli, l’opportunità,
le regole d’ingaggio et cetera, et cetera, et cetera. Alla fine, però, il
risultato deve essere conforme all’idea di chi ne assume, anche e soprattutto
giuridicamente, la responsabilità. Non è giusto che prema il pulsante “INVIO”
sulla tastiera chi sporge il braccio e allunga la mano da dietro le quinte.
Pensate, oltretutto, a come sia ingiusto e paradossale se si dovesse chiedere
l’autorizzazione addirittura per pensare. «Honni soit
qui mal y pense!» In altri tempi (non tantissimo tempo fa, voglio dire) questi
fenomeni erano inimmaginabili. Le figure di vertice, in ogni settore della
vita civile, avevano carature differenti. Parlavano un altro linguaggio, si
ponevano con atteggiamenti diversamente dignitosi, esibivano posture di alto
profilo, si apostrofavano con rispetto per se stessi oltre che per la
grammatica e la sintassi. E la parola era quasi sempre limpida, tanto da poterne
comprendere almeno il senso, se non il significato perfetto. Oggi si
utilizzano stilemi pesanti, ambigui, carichi di scorie animose, di echi
dissonanti restituiti appena da fragili barriere pronte per essere abbattute
alle prime profferte o avance tentatrici. E si parla tanto per dire poco o
niente. Che si tratti di un nuovo analfabetismo di ritorno? Tuttavia, il mondo politico è pieno di “grilli parlanti”,
egoisti e pieni di sé (talvolta anche insignificanti), che non sempre
indicano la giusta via da percorrere, ma quella più utile ai propri
interessi. C’è da dire, però, che non sempre fanno una bella fine. Pinocchio,
per esempio, si “toglie dalle scatole” il grillo parlante lanciandogli contro
un grosso martello da falegname. Un bel mestiere se si pensa che da bambino lo esercitava anche
Gesù Cristo. Luigi Parrillo |
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