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La città politica (e non solo) alla luce del pensiero divergente |
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20 giugno 2016 Il destino di chiamarsi Virginia
E si avrà un bel dire per sostenere che così non è. L’uso
abituale della “controfigura” (per usare un linguaggio cinematografico) o il ricorso
all’agnello sacrificale (in senso reale o metaforico), che da millenni viene
praticato per evitare noie o danni alle figure prevalenti nel contesto
sociale di appartenenza, non è mai tramontato. Ed in forme più o meno
evidenti, sia essa riconosciuta o smentita, è una pratica piuttosto frequente
nel mondo della politica, dell’amministrazione pubblica e non solo. Così, il confine tra la riconoscenza e la sottomissione si
confonde, si attenua fino a scomparire del tutto, e i due comparti mentali si
unificano fino a diventare una cosa sola, difficile da identificare e
definire. D’altronde, secondo gli esperti di onomastica, Virginia, nome
probabilmente di origine etrusca, avrebbe il significato di vergine destinata
al connubio, al matrimonio. Oggi, usando un comune barbarismo molto di moda,
diremmo eufemisticamente, e per opportuna trasposizione, che la persona cui è
stato imposto questo nome è destinata naturalmente ad una inevitabile iper-partnership. Il senso, poi, o la qualità e la estrinsecazione del connubio
e del rapporto riguarda le persone che lo intavolano e che lo vivono. Noi
siamo solo testimoni di certi fenomeni che, passando tranquillamente sulla
testa (o sulla schiena, se preferite) dei soggetti protagonisti, non è detto
che debbano necessariamente sfociare in fatti negativi o avere esiti nefasti.
Di sicuro c’è una sorta di farraginosità, un certo stridore
nei meccanismi complessi della personalità e dell’autonomia. Si immagini,
tanto per fare un esempio, una vettura che proceda con il freno a mano tirato
o con il riduttore elettronico di velocità inopportunamente inserito.
«Honni soit
qui mal y pense!» In altri tempi (non tantissimo tempo fa, voglio dire) questi
fenomeni erano inimmaginabili. Le figure di vertice, in ogni settore della
vita civile, avevano carature differenti. Parlavano un altro linguaggio, si
ponevano con atteggiamenti diversamente dignitosi, esibivano posture di alto
profilo, si apostrofavano con rispetto per se stessi oltre che per la
grammatica e la sintassi. E la parola era quasi sempre limpida, tanto da poterne
comprendere almeno il senso, se non il significato perfetto. Oggi si
utilizzano stilemi pesanti, ambigui, carichi di scorie animose, di echi
dissonanti restituiti appena da fragili barriere pronte per essere abbattute
alle prime profferte o avance tentatrici. E si parla tanto per dire poco o
niente. Che si tratti di un nuovo analfabetismo di ritorno? Tuttavia, il mondo politico è pieno di “grilli parlanti”,
egoisti e pieni di sé (talvolta anche insignificanti), che non sempre
indicano la giusta via da percorrere, ma quella più utile ai propri
interessi. C’è da dire, però, che non sempre fanno una bella fine. Pinocchio,
per esempio, si “toglie dalle scatole” il grillo parlante lanciandogli contro
un grosso martello da falegname. Un bel mestiere se si pensa che da bambino lo esercitava anche
Gesù Cristo. Luigi Parrillo |
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