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10
aprile 2014 |
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L’anima
della città |
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Quando arrivano questi periodi, quelli, cioè, in cui si
procede al rinnovo delle classi dirigenti nelle città, nelle regioni o in altri
organismi più ampi per territorio e per importanza, sembra quasi che si debba
compiere un gesto tecnico, come incasellare una serie di oggetti in un
contenitore, secondo un certo ordine cromatico o per una certa tipologia di
grandezze. Questa appare essere la percezione delle masse che
disinvoltamente, quasi con leggerezza, si recano alle urne per determinare la
composizione delle squadre di governo. Esercitano un diritto, compiono un
atto dovuto. Vanno, votano, tornano. Esaminiamo, però, nel dettaglio questo rito, che
periodicamente si rinnova, alla luce degli ultimi tre verbi usati nel
capoverso precedente. 1.
Vanno. È quasi un
acquerello leopardiano: «Tutta vestita
a festa [la gente] del loco lascia le case e per le vie si spande; e
mira ed è mirata…». Sembra il rito abituale di un giorno di festa nei
piccoli borghi come il nostro (ancorché paludato di presunzioni di altisonanza). La passeggiata da casa al seggio elettorale
è punteggiata da sguardi d’intesa, da saluti di un’affettuosità tanto
sperticata quanto è falsa ed interessata, da strette di mano untuose ed
offensive per il senso di autonomia che dovrebbe nobilitare ciascun
cittadino, da frasi in codice e da parole distorte nel significato reale. È
la pantomima delle spinte, delle pressioni precedenti, dei ricatti travestiti
da consigli benevoli, delle microminacce a
trentadue denti, dei corrispettivi già incamerati o da incamerare, delle
forzature parentali odiose perché risultano spesso subdole e ricattatorie. Si
tratta, in sintesi, della più incivile forma di coercizione della volontà
popolare, asservita al bisogno, menomata dall’incultura, annullata dalla
totale mancanza di senso civico. Per
questo, ognuno si guarda intorno e cerca di individuare chi lo guarda e come
lo guarda: se è un sorriso di richiesta, uno sguardo duro di imposizione, un
monito severo per indurre all’obbedienza, una sottomissione da utile e
reciproco scambio. In pratica, una dipendenza a tutti gli effetti. Possiamo
dire che si tratta di gente libera? 2.
Votano. Si recano al
seggio, esibiscono la tessera elettorale, ricevono le schede, entrano in
cabina e… Il
bello (o il brutto) incomincia da questo momento in poi. Quando, cioè. nasce
il conflitto interiore fra ciò che si dovrebbe fare e quello che poi
effettivamente si farà. Sulla scheda, accanto al simbolo “del cuore”, c’è
quello della coartazione. Allora, incomincia a rodere il tarlo del dubbio:
«Che faccio? Se ne accorgeranno? E dopo?» La
matita esita tra le dita incerte. La mano ti spinge verso il simbolo “del
cuore” e la paura verso quello dell’imposizione. Alla
fine, «Ma si! Come va, va! Su’ tutti i
‘na manera!» E si
imbratta la scheda con un voto coatto di cui si avvertirà solo la vergogna
interiore, perché nessuno avrà mai contezza di ciò che si è fatto. «Tanto, il
voto è segreto!» È segreto per gli altri, ma non per la propria coscienza. Fanno
tutti così? Certo che no. Molti riescono a realizzare il concetto che, dando
il voto a qualcuno, a quel qualcuno si affida non solo l’anima della città,
ma il futuro dei propri figli oltre che il benessere della propria famiglia.
A quel qualcuno si demanda il compito difficile di gestire l’andamento della
cosa pubblica, che è anche nostra, di tutti; e nessuno può disporne a proprio
piacimento. Nessuno può disporre dell’anima della città. 3.
Tornano. Liberata la
coscienza – o caricata la coscienza di un peso gravoso, a seconda
dell’espressione di voto effettuata – si rientra nella propria casa.
L’atteggiamento sarà duplice: o con il cuore aperto alla speranza di
cambiamento e di miglioramento, se si è dato un voto secondo i propri
convincimenti politici, o con animo rassegnato, se si è dovuto obbedire ai
“padroni” della propria coscienza e, quindi, della propria vita. Da
uomini, bisognerebbe sentirsi sereni e nobilitati dall’aver dato ascolto alla
propria coscienza; da genitori non si dovrebbero avere scrupoli nei confronti
dei propri figli, se si è agito senza sottostare ai ricatti di chi vorrebbe
renderli schiavi comprandone la dignità; da cittadini, si dovrebbe sempre
camminare a testa alta, guardando il prossimo negli occhi con l’espressione
di chi dica: «Ho agito secondo coscienza per il bene mio, tuo e di tutti!» Nessuno
di noi può pagare il conto del benessere di pochi trafficanti di opinioni in
mala fede, che al di là del proprio tornaconto non vedono più niente. Bisogna
saperli riconoscere. Ma ritengo che nessuno sia così fesso. Allora, cos’è l’anima della città? È la coscienza collettiva,
l’onore di ciascuno di noi, il rispetto che si dovrebbe avere per se stesso e
per gli altri, il dovere verso i figli e la famiglia, l’amore per la propria
salute, l’orgoglio della propria professione, la stima per gli amici del bar,
il senso dell’onestà, della fedeltà, e tanto altro ancora. A chi vogliamo consegnare tutto questo? Decidiamolo da noi, nel nostro intimo, nel nostro privato di
“uomini” nel vero senso della parola, non di servi sciocchi di interessi che
non sono i nostri. Che nessuno si arroghi il diritto di prevaricare le nostre
scelte. Ci possono chiedere il voto? Certamente. Ma, col garbo di chi chiede, non con
l’arroganza di chi pretende. E, per favore, non pretendete anche di
insegnarci a conoscere, attraverso identikit di comodo, persone che vediamo
tutti i giorni e che conosciamo persino nel loro peso specifico. Sappiamo in quali mani consegnare l’anima della città! Luigi
Parrillo |
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